I.3 "American Beauty"
In una notte buia e tempestosa
Le puntate precedenti si leggono qui
(segue)
Ma c’è tempo. C’è tempo per sapere, per restare turbati, per reagire. Sempre che il solitario sia in grado di reagire. Accadrà, comunque, fra qualche giorno.
Accadrà in una notte buia e tempestosa di gennaio – che potrebbe essere l’incipit del romanzo che il solitario non riesce a scrivere.
Il Grande Romanzo che, se mai lo portasse a termine, potrebbe opporre come un trofeo all’artista. Vedi? Eccolo qua.
Legge le strisce dei Peanuts: già da molti anni quella piccola ghenga di ragazzini pensosi-ironici-malinconici affolla la sua vita interiore.
Charles M. Schulz, il geniale creatore di Snoopy, sta per morire.
Gli restano da vivere esattamente trentaquattro giorni, a contare da oggi, 9 gennaio dell’anno 2000. Ma il sedicenne solitario non lo sa; e non lo sa nemmeno il settantasettenne Schulz.
Il solitario conosce bene lo slancio e insieme l’esitazione del bracchetto quando prende a ticchettare, in cima alla sua cuccia rossa, le prime battute del capolavoro che non porterà mai a compimento.
Era una notte buia e tempestosa.
Anche lui ha scritto parecchi incipit rimasti sospesi, lembi di un Tutto che non esiste, non esisterà mai. Non si incarna, non si rende visibile. C’è nella testa, non altrove: lì il “tutto” è aereo, impalpabile. Ah, i libri non scritti! Ben più riusciti di quelli che siamo riusciti a scrivere.
Fatto è che la notte buia e tempestosa in arrivo gli fornirà l’occasione per darsi da fare, per prendere la palla da baseball dell’ispirazione al balzo. Non è detto che lo faccia. Non lo farà.
In certi pomeriggi – no, non direi di noia, in certi pomeriggi vuoti, soprattutto di domenica, incredibilmente spaziosi, larghi che a sedici anni capita di vivere, riprende a disegnare con la concentrazione e l’intensità con cui lo faceva da bambino. Senza fretta, senza costrutto. Con una gratuità simile a un autentico stato di grazia.
Anche l’artista disegna. Ma l’artista espone il suo lavoro, lo offre allo sguardo, lo contrabbanda. Il solitario lo lascia al chiuso, al buio dei suoi quadernetti. Oggi ha disegnato un Charlie Brown malinconico con il suo guantone, e una foglia autunnale che gli vola verso le orecchie.
(illustrazione PDP)
Nella pagina seguente, ha preso un appunto. Un segno sgraziato a matita con cui intende fissare una frase del film visto ieri in compagnia di lei, dell’artista e del muscoloso. American Beauty. Non è nemmeno così sicuro di ricordarla bene, forse nel trascriverla la rimodella, e la tradisce.
In ogni caso, l’ha fatta sua.
A pronunciarla, con occhi spiritati, è l’attore che interpreta Ricky Fitts – quell’eccentrico ragazzo un po’ inquietante che va in giro con una telecamerina. Spia i vicini, spia una ruvida coetanea che si chiama Jane, coetanea anche di quei quattro amici seduti in una sala del “Supercinema”. I quali potrebbero ritrovarsi nelle maniere stizzose che lei ha parlando con il padre, il quarantenne Lester-Kevin Spacey (a loro sembra molto più vecchio). Potrebbero ritrovarsi riflessi nell’irrequietezza scontrosa, nella confusione dei desideri. Potrebbero.
Comunque, la frase dice, la frase forse dice: “A volte c’è tanta bellezza nel mondo”. No. “A volte c’è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla”.
Il solitario ora la trascrive come se dovesse ricordarla. No. Come se dovesse capirla. Come se dovesse capire se l’ha capita. Come se dovesse capire, se capendola, può condividerla. La verità è che non lo sa. Ma è stato il momento del film – gli occhi grigioazzurri di quel tizio in primo primissimo piano, il suo tremore impercettibile – il momento da cui è rimasto più turbato. Più di quando sbuca la ragazza bionda, Angela, angelicata e sensuale, in una coreografia da cheerleader su cui il regista indugia; più di quando appare fra i petali di rosa di un sogno erotico fatto dal padre della sua amica, più che quando si mette a parlare di cazzi&pompini.
La luce dello schermo continua a baciare i profili degli spettatori come un chiarore lunare. Il solitario non è solo nella visione, di continuo è distratto dalla curiosità per ciò che provano i suoi compagni. Lei a che cosa sta pensando? che cosa pensa della scena dei petali di rosa rossa, del quarantenne eccitato? Il muscoloso è eccitato? L’artista è l’unico a concentrarsi sulla recitazione, che stia attento a sguardi gesti movimenti nello spazio?
Prima di entrare in sala ha sventolato sul muso degli altri la copia di “Ciak”, la rivista di cinema di cui attende l’uscita con ansia e che custodisce e archivia con cura maniacale.
“Guardate qua!”
“Cosa?”
“Dicono che agli Oscar sbancherà.”
Gli Oscar! Lo sillaba quasi, con un gusto, un compiacimento così candido così marcato da dimostrare che, in fondo, possiamo erotizzare tutto. Oggetti, astrazioni, le nostre stesse aspirazioni. E che è probabile che, a quest’altezza della sua vita, sia più eccitato dal suo sogno di artista che da una qualunque scena – ideale reale cinematografica – di sesso. Infatti sembra non battere ciglio nemmeno quando, in modo assai goffo, patetico, il quarantenne protagonista tenta l’approccio con la ragazzina, diversamente dal solitario e dal muscoloso, che respirano forte col naso, che si muovono sulla poltroncina come se fosse diventata improvvisamente scomoda.
È un film però che non lascia pruriti, smanie. Lascia la sensazione di essere stati messi a parte, in quanto spettatori sedicenni, di un futuro sì potenziale ma soprattutto grottesco, e per certi versi inattendibile. Almeno stando a quanto appare loro irreale l’ipotesi di poter anche solo pensare – fra ventisei anni! – che il culmine della giornata sia il farsi una sega sotto la doccia. Così invece assicura la voce fuori campo del quarantenne Lester-Kevin Spacey.
Questa è la mia vita, dice. Dopo un minuto squilla la sveglia. Dice di sentirsi già morto. Dopo qualche minuto è sotto la doccia e si masturba.
Poi lo vediamo con una triste giacca marrone, e con le occhiaie. Poi seduto a una scrivania da ufficio, ricoperta di scartoffie e di oggetti. Il telefono fisso, un computer grosso come un comodino. È cupo, è rabbioso. La moglie sorride ma è nervosa. A un certo punto ha una crisi di nervi. La figlia adolescente, degli adulti, pensa che sono dei gran coglioni e dovrebbero viversi la loro vita. Per essere precisi, lo pensa dei suoi genitori.
Il fatto è che loro stanno facendo quello – viversi la loro vita. Ma – urla a un certo punto la moglie-madre-agente immobiliare – «mi rifiuto di vivere così!». Lester-Kevin Spacey si guarda la pancia, decide che vuole essere bello nudo – ma per chi? – e si mette a correre e a fare pesi. Quello strano soggetto di Ricky Fitts una sera gli passa una canna. E lui ride, ride, ride. Non la smette più di ridere. Ma gli spettatori no, non ridono.
Non ride l’artista, che a fine proiezione si dice entusiasta.
Non ride il muscoloso, che non dice niente.
Non ride il solitario, che chiede a lei: “Ti è piaciuto?”
“Non lo so.”
“Che vuol dire non lo so”, la rimprovera l’artista.
“Ci devo pensare”, si difende lei.
Fa una pausa.
“E poi – ”
“E poi?”
“E poi niente.”
“Eh no, adesso parli”, la incoraggia il muscoloso, che fin lì era rimasto zitto. Ma forse non gliene importa granché.
“Voi maschi ci fate veramente una figura pessima.”
Un’altra pausa.
“Tutti”. Sorride, sì, adesso sorride, ma la frase che segue li scuote. “Sembrate dei disperati”.
Non so con quanta reale coscienza di sé o con quanta, piuttosto, istintiva difesa, ma eccoli là: la guardano come se li avesse insultati. Scusa, dicono con gli occhi, ma noi che c’entriamo? C’entrate eccome, risponde lei, sempre con gli occhi. La giacca marrone, le occhiaie, la canna, la risata inarrestabile, tutto ciò che risulta patetico – come dice la figlia di Lester-Kevin Spacey –, il desiderio per la ragazzina. E lo vedete? Lui, Lester-Kevin Spacey, soffre per il fatto che la moglie non è sfigata come lui. Quando lei lo becca a toccarsi a letto e urla, lui, be’, lui per parlare del suo pene bisognoso usa un’espressione così idiota così patetica che nemmeno me la ricordo. Anzi, non me la voglio ricordare.
“Sembrate dei disperati.”
Non io, pensa l’artista.
Non io, pensa il solitario.
Il muscoloso si lascia scivolare la frase sulla camicia ben stirata. Saluta, va di fretta, la sua serata continua.
Non saremo così. Non faremo la fine di Lester-Kevin Spacey. Non è il nostro film.
Non è il film di nessuno.
Forse nemmeno di Kevin Spacey, che fra una settantina di giorni o poco più, vincerà un Oscar nella categoria miglior attore.
Fra diciassette anni, accusato di molestie sessuali, vedrà interrotti o bloccati i progetti cinematografici a cui sta lavorando. (continua)
Qui la mia lettura del capitolo
Il progetto “1999” sta destando attenzione e generando un po’ di discussione. Qui un articolo uscito su Linkiesta e qui un articolo uscito su “Universo letterario”.





Nel terzo capitolo, all'inizio, c'è una promessa temporale che riguarda il solitario. Fa parte del patto con il lettore. "Sapere, restare turbati, reagire". Una cerniera con la fine della seconda puntata, giocata sul diverso atteggiamento di fronte alla scrittura del solitario e dell'artista, è il nuovo confronto tra i due, spostato sul disegno. L'artista espone il suo lavoro, il solitario lo lascia al chiuso, "al buio dei suoi quadernetti", come i libri non scritti che rimarranno "nella testa, non altrove", perché non si fida a condividerli con nessuno. Ecco come l'autore si aggancia al film che i quattro hanno visto insieme al Supercinema: attraverso un disegno di Charlie Brown e un appunto su una frase. La frase di Ricky Fitts, l'eccentrico ragazzo voyeur che filma con telecamerina dalla finestra di fronte, è il momento decisivo, che ha turbato il solitario, molto più delle scene erotiche. La sua psicologia si chiarisce man mano: è distratto dalla curiosità per ciò che provano i suoi compagni davanti al film. E poi trascrive la frase in un climax di autoconsapevolezza, "come se dovesse capirla, o capire se l'ha capita, come se dovesse capire, se capendola, può condividerla". Anche l'artista è ben indagato nella sua convinzione che "possiamo erotizzare tutto" ed è "più eccitato dal suo sogno d'artista che da una qualunque scena di sesso". I loro sedici anni nel film vedono un futuro potenziale grottesco: non possono identificarsi con il protagonista. La ragazza sentenzia di fronte ai tre compagni: "tutti sembrate dei disperati", ma i tre non si vedono rispecchiati in quel personaggio di maschio. In questa terza puntata emerge con forza la dimensione spiazzante del futuro, impresagibile. Il futuro del solitario e di Schulz, ignari di una morte che avverrà di lì a 34 giorni e quello di Kevin Spacey, che non sa che vincerà l'Oscar per l'interpretazione di Lester, ma che 17 anni dopo verrà travolto dal sesso come il suo personaggio.
Si precisa sempre meglio (ma occorre rileggere le puntate in sequenza: et pour cause, non siamo a Beautiful) la simmetria fra i personaggi della realtà narrata e quelli del film. Si avverte, come un basso continuo, il tema del sesso: delle parole da usare per dirlo (forse, il problema è "dirlo"?). Continua, vertiginoso, il gioco prestigiatorio con il tempo: insomma, ci stiamo divertendo...