Cominciare e finire
Una breve riflessione
Stavolta il ritardo ha varie ragioni. Da un certo punto di vista, non mi dispiace questa dilazione. In fondo, in questi mesi anche gli imprevisti hanno fatto parte dell’avventura della scrittura. Una puntata che non arriva a mezzogiorno ma nel pomeriggio. Un’altra puntata che non arriva il venerdì ma il giorno dopo. Una puntata che salta. Stavolta mi sembra inconsapevolmente un modo per ritardare la fine. A ogni modo, ho deciso così: venerdì 3 uscirà la penultima puntata; sabato 4, dopo la lettura che ne farò alla Festa del racconto, l’ultima. Strano dirlo: l’ultima! Sono passati diversi mesi e abbiamo attraversato i confini di tre stagioni. Primavera, estate, uno scorcio di autunno.
Ieri, in uno degli incontri pubblici che ho fatto in Puglia, si è parlato anche di “1999”. L’intervistatore a un certo punto mi ha chiesto che effetto mi fa sapere che finisce qua. Ho risposto che se da un lato avere una scadenza in meno può essere un sollievo, dall’altro l’interruzione di una curiosa abitudine lascia un filo di amarezza. Ma c’è un altro tema. Che cos’è un finale. Quanto può deludere. Quante volte abbiamo pensato, alla fine di un romanzo o di un film: sì, bello, ma il finale boh. Per quanto mi riguarda, ho sempre scritto romanzi con finali grossomodo “aperti”, o comunque sospesi. Lasciati volontariamente sfumati perché il lettore potesse decidere come continua. Essere lui/lei l’autore/l’autrice del segmento di storia oltre le pagine.
Questo esperimento, come ormai credo di avere capito, è stato soprattutto una riflessione su cosa significa la ricezione. E giustamente un’amica lettrice ha tirato in ballo, in una nostra conversazione, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Romanzo proverbiale, almeno stando al titolo: fu un bestseller nel 1979... Oggi lascerebbe disorientati? Comincia, come molti di voi ricorderanno, con un incipit che chiama in causa direttamente il lettore: Stai per cominciare a leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino... Poi il gioco (serio) è quello di far cominciare dieci romanzi senza finirne nessuno. Nello spazio fra romanzo e romanzo il protagonista diventa il lettore. Ed è il lettore, insieme alla lettrice – funzioni astratte che si incarnano –, a condurre il romanzo verso un finale non scritto, non stabilito. Negli anni dello strutturalismo molti critici si compiacevano fin troppo degli azzardi combinatori di un Calvino che aveva respirato aria di neoavanguardia francese.
Ma a distanza di decenni quel romanzo colpisce piuttosto per come pone la questione del rapporto con il lettore. Non “perché scriviamo?”, ma “per chi?”.
In questo senso ha ragione l’amica lettrice che mi diceva di avere pensato a Se una notte.
Aggiungo che c’è una conferenza di Calvino, una specie di lezione americana in più, che si chiama “Cominciare e finire” e fa al caso nostro, o comunque mio. Che vuol dire un inizio? Perché Dante, nella molteplicità degli inizi possibili, sceglie “Nel mezzo del cammin...?”. Perché, dopo migliaia di versi, scrive – ultima frase, ultimo approdo di quell’opera – “L’amor che move il sole e l’altre stelle”? Calvino è affascinato da questo perimetro. Come il disegno del confine di un campo da gioco. Quello che scriviamo prende una forma, se la prende, entro due soglie. L’incipit e l’explicit.
La partita si gioca sapendo che c’è, restando fra metafore sportive, un fischio d’inizio e un fischio di chiusura. Si può ritardare quell’istante (lo sto facendo! Ed è anche tipico mio – non rispettare quasi mai i tempi, essere sempre in ritardo su qualcosa), ma non si può evitare.
Ho un quaderno fitto di appunti preparatori, su “1999”. Ma non ho (non ho ancora) un finale. Sento che sto per arrivarci, mi pare di vederlo – laggiù, un baluginio, un colore ancora non netto. Dire addio a questa storia – vale per ogni storia – è anche uno strappo. Somiglia a un congedo, a un trasferimento, a un voltare le spalle. Ciao solitario, ciao artista, ciao muscoloso, ciao Lei! Che ne sarà di voi, oltre l’ultima pagina? Siete laggiù, nel ’99. Ma siete anche qui, c’è un futuro che vi aspetta e che non sarò io a raccontare. Detto questo, non sono fra quegli autori che ripescano vecchi personaggi e li portano verso il cosiddetto sequel, o addirittura li trascinano in una saga.
Ricordo la delusione manifestatami da qualche lettore per il finale-non finale di un romanzo intitolato “Una storia quasi solo d’amore”. Un ragazzo aspetta la ragazza di cui si è innamorato sotto casa di lei. Se ne resta in macchina, piove a dirotto, aspetta che lei scenda. Il romanzo finisce, non sappiamo se lei scenderà. In fondo, mi dico, non ha importanza. È scesa? Non è scesa? Non lo so, non voglio saperlo. Ognuno spera qualcosa. Come nella vita. Non è detto che accada.
Le puntate precedenti si leggono qui
Questi i libri sulla scrivania, in vista del finale. In uno - Mendelsohn - c’è una bellissima riflessione su “Tutto su mia madre”. Nel saggio di Cinquegrani interessanti considerazioni sul rapporto fra “Eyes Wide Shut” e “Doppio sogno” di Schnitzler: ci arriviamo. L’ultimo racconta splendidamente che cosa vuol dire, nel tempo, in diverse epoche, immaginare il futuro. Che è poi il nostro punto di partenza, e forse di arrivo.




«Ognuno spera qualcosa. Come nella vita. Non è detto che accada». Vero, purtroppo o per fortuna. Dipende dal finale. E proprio per questo leggo. Perché invece lì, tra le righe di una pagina, si ricompone quanto nella vita è “disunito”. Oppure se non si ricompone, affiorano nuove domande, inattese prospettive. Aspettavo la penultima puntata, mi chiedevo che cosa potesse succedere con "Eyes wide shut". Quante volte ci ho pensato questa settimana. E invece arriva questa puntata diversa. All’inizio mi hai fatto cascare le braccia, scrittore. Ma un secondo dopo la delusione, ho visto la foto, il post-it con scritto Kubrick, sottolineato e con un punto esclamativo, e ancora una volta mi è venuta voglia di ringraziarti. Perché questo viaggio che ci accompagna da maggio non è stato solo un incontro con i personaggi che fra poco saluteremo, non è stato solo un incontro tra scrittore e lettori e fra lettore e lettori, ma anche un incontro con la scrittura stessa. Da dove parte uno scrittore, quale punto di vista assume, quale incipit adotta se non usa “In una notte buia e tempestosa”, quanti possibili e inesauribili modi esistono di focalizzarsi sui personaggi, quanta vita c’è dietro la ricezione del lettore, per chi o per cosa scrive lo scrittore e quanto lui stesso viene modificato da ciò che scrive. Potrei continuare. Allora questa che in prima battuta mi sembrava una non-puntata è una vera puntata. Necessaria. Perciò, come quando si arriva alle ultime pagine di un libro non esiste più nulla intorno, così esisteranno solo le prossime schermate di 1999 venerdì e sabato prossimi, e questa storia - in cui ci sono i nostri quattro ma poi ci sei tu e ci siamo noi e c’è il passato e c’è il futuro - questa storia deciderai tu come concluderla. Forse, come dice Calvino nelle pagine che sono corsa a leggere, ci accorgeremo «che non è verso quel punto che portava l’azione del raccontare, che quello che conta è altrove», ma almeno su quella pagina qualcosa si ricomporrà. Sceglilo aperto, definito, “famolo strano”, ma concludi. Perché se “la vita non conclude”, la scrittura sì. Riesce a farci stare dentro tutto. "Tutto in un punto", in un punto una straordinaria esperienza di creazione di un universo. Sicura che il colore di questo finale diventerà a breve netto e definito, come sempre ti ringrazio.
E anche questa "puntata non puntata" ha scalzato le altre ed è diventata la preferita. Con 1999 si vede una nuova declinazione del Bildilungsroman, la formazione del lettore.
Pensa che è la prima volta che ne nomino il titolo: ero talmente dentro a quest'opera da averne smarrito i confini!
Non so se valga anche per i miei compagni di viaggio, ma questa volta fra "le funzioni astratte che si incarnano" c'eri ancor più forte e chiaro anche tu, come gli angeli de "Il cielo sopra Berlino".
Grazie per questo curioso spazio di reciprocità.
Grazie di portarci con mano sapiente verso la conclusione, richiamando l'importanza della cornice fra inizio e fine, cosa che aiuterà, forse, a sentirci un po' meno smarriti.