I.2 "American Beauty"
L'artista totale
Le puntate precedenti si leggono qui: https://1999.romanzo.substack.com
(segue)
Che film insensato!
Be’, ecco, sarebbe fantascienza – no, peggio, un delirio psichico, un demenziale film d’avanguardia immaginare che il padre di uno di voi (un padre) a sessant’anni possa ritrovarsi a scrivere cose ridicole, IMBARAZZANTI, eccolo lì, lo vedete? Frasi da stupido seduttore invecchiato, melense quando va bene, lubriche quando va male; e che mostrerà i braccialetti al polso, un feticismo patetico che supporrà lo faccia sembrare giovane; né è immaginabile l’istante ripetuto in cui scatterà fotografie a sé stesso, goffamente lascive, in penombra, mostrando il petto villoso per poi renderle pubbliche.
Ed è ancora più difficile immaginare che sì, insomma, tutto questo risulterà visibile a una cerchia di amici, conoscenti e perfino di sconosciuti, i quali e le quali finiranno per commentare con entusiasmo più o meno sincero, talvolta perfino con toni eccitati.
Non potete immaginare tutto questo perché il creatore del luogo aereo, impalpabile – una cosa diversa da un sito Internet, una roba che nel 1999 non è ancora dato definire – ecco, il creatore dello spazio virtuale in cui un padre attempato si esibirà insieme ad altri miliardi di esseri umani è ancora un ragazzo di quindici anni, figlio di un dentista e di una psichiatra e al momento si limita a tirare di scherma, e a smanettare con i computer sfidando e modellando software nella sua cameretta di adolescente a Dobbs Ferry, riva sinistra del fiume Hudson, qualche migliaio di abitanti – la stessa popolazione, più o meno, del luogo in cui vivete voi – a nemmeno venti chilometri da New York.
C’è altro. Non puoi immaginare, riguardo a te stesso dico, caro il mio muscoloso, l’istante (che non memorizzerai) in cui, da un telefono portatile che non sarà più solo un telefono e sarà molto diverso da quello di cui disporrai fra un anno o poco più, insomma da una specie di telefono da tasca invierai la foto scattata al tuo pene in erezione a una ragazza che non saprà che cosa rispondere; e la cosa ti ecciterà in proporzione molto più degli amplessi vorticosi che il tuo compagno di banco ti ha spinto a contemplare dal suo computer, in quella sonnolenta ora postprandiale che precede il ripasso condiviso di filosofia (Hegel! Hegel! Ma com’è che non si capisce un cazzo di Hegel?) e segue il pranzo veloce con sua nonna, che di solito prepara una pastasciutta un po’ troppo cotta e troppo poco condita.
Non puoi immaginare quell’istante – e quella abitudine che comporterà un frequente, strano gioco di pornografia autoprodotta istantaneamente – perché l’imprenditore informatico nato a Kiev, Ucraina, e trapiantato in California che offrirà a miliardi di esseri umani la possibilità di inviarsi messaggi a una velocità frenetica e di condividere immagini e registrazioni vocali è ancora un ventitreenne appena assunto da una società di servizi Internet chiamata Yahoo. L’imprenditore informatico, a sua volta, non può immaginare che il frutto della sua intelligenza e del suo lavoro verrà acquistato per diciannove miliardi di dollari, fra circa quindici anni, dall’ancora quindicenne figlio di dentista che smanetta in camera sua a Dobbs Ferry.
A dirla tutta, è impossibile immaginare che una buona e istantanea connessione a Internet non passerà più dal curioso ronzio, dal sibilo emesso da questo modem con le sue antenne e i suoi occhietti verdi di alieno. Troneggia su una torre di libri impilati sul pavimento, accanto al parallelepipedo di lamiera che protegge i misteriosi componenti che fanno vivere un computer.
Un corpaccione che si alleggerirà e si ridurrà e si alleggerirà ancora, fino quasi a sparire, nella corrente furiosa, inesorabile che toglie peso al peso del mondo.
Leggero leggerissimo il pacco che non immagineresti possa raggiungerti in – quanto? dodici ore! Dodici ore dopo avere ordinato non so che, senza dubbio qualcosa di superfluo. Ma sarà naturale e straordinaria di per sé la sensazione di avere il mercato universale a portata di mano, trecentocinquanta milioni di articoli di ogni sorta, un indefinito e sterminato suk universale, la multinazionale di commercio elettronico che già quest’anno è valsa al suo fondatore il titolo di uomo dell’anno. Nell’arco dei successivi due decenni il suo patrimonio complessivo supererà i duecento miliardi di dollari.
Il tuo, il vostro, per il momento, è in un paio di banconote e qualche moneta – lire! – ficcate in un portafoglio in nylon colorato con chiusura scratch. Un ammontare minimo, buono per i biglietti del cinema e poco più. Tredicimila lire bruciate per il biglietto di American Beauty.
Vale qualche presagio della vita adulta. La vita che sarà.
*
“Ah però, questa scena che hai scritto. Questa scena che hai scritto, questo accumulo di immagini, posso dirti? Sembrano un po’ messe lì”.
Il solitario se la sarà cercata, in fondo: scegliendo di farsi raggiungere dai giudizi di chi legge le sue storie.
E nel 2025, sarà indeciso sulla risposta.
Sorridente, aperta? Indifferente? Stizzosa? Che vuol dire messe lì? Che cosa intendi? Non sembra un complimento. Ma lo sa, non è così sciocco da non sapere che non si scrive per ricevere dei complimenti. O sì?
Laggiù, nei pomeriggi di inizio del secolo, se si mette a scrivere lo tiene per sé.
Per questo, un po’ controvoglia ammira l’artista. Lo ammira perché dice a voce alta che un giorno sarà un grande attore e vincerà l’Oscar. Lo ammira, controvoglia, perché dice che sarà un attore, perché si vanta di un futuro su cui non ha il controllo, lo dà per sicuro.
Sarò un attore! Vincerò l’Oscar!
Lui, il solitario, non ha quell’impudenza, quello slancio. E se c’è una cosa che lo infastidisce è che l’artista si manifesti, nel suo mascherarsi, come artista totale: recita, canta – è intonato, canta e ricanta Céline Dion, My Heart Will Go On.
“You’re here, there’s nothing I fear...”, lo sforzo vocale lo fa avvampare, ma è bravo, funziona, funziona cazzo.
Canta l’artista, balla anche, è sciolto, mobilissimo. Bravo! Viene applaudito perché è difficile non applaudirlo, perché fa sorridere, perché applaudire è anche un modo, non so, un modo per dire a un altro: per fortuna che ti butti tu in tutto questo, io non saprei farlo, io non so buttarmi, forse non m’interessa nemmeno, ma non sono capace, non ho queste qualità, non so bene nemmeno com’è che si fa a piazzarsi su un palcoscenico, e perché.
C’è qualcosa di imbarazzante in ogni esibizione.
Allora si applaude anche per sciogliere l’imbarazzo, un imbarazzo reciproco, tu che ti metti in mostra, io che ti guardo – uno scrittore gigantesco (che né il solitario né l’artista hanno ancora letto) dice che bisognerebbe suonare il pianoforte, se si suona il pianoforte, bisognerebbe suonarlo solo nel chiuso di un armadio, perché se lo suoni davanti a qualcuno cercherai l’applauso, e se l’applauso dovesse arrivare, ecco, non smetterai più di cercarlo. Tutta la vita la passerai a cercare uno stupido applauso.
Fatto è che l’artista totale viene applaudito, ed è giusto così.
Però il solitario vorrebbe che, almeno, restasse nel suo: sì, d’accordo, recita, canta, balla, fa lo scemo, emana un’elettricità impudica che è il rovescio della timidezza con cui – in gita, nella stessa stanza – si spoglia senza lasciare intravvedere un lembo di pelle nuda. Recita, canta, balla – e no, non basta: scrive.
Scrive racconti. Scrive inizi di romanzo.
E lì, in quel campo, l’applauso non è a portata. Un conto è dimenarsi simpaticamente sulle note di una canzone di Loredana Bertè; un conto è chiedere a qualcuno, tra un’ora di lezione e l’altra, o nei quindici minuti dell’intervallo, di rinunciare alla pausa e di chinarsi sulle righe fitte corpo 11 Times New Roman stampate in un blu stinto perché il toner nero sta finendo.
E qui il problema è che l’artista lo chiede al solitario.
“Mi dici che ne pensi?”
“Lasciami i fogli, me li porto a casa e domani ti dico.”
“No, devi leggere ora. Subito!”
È imperioso, ma per gioco, in quel modo teatrale buffonesco che diventa seduttivo e quasi ricattatorio.
“Ma sono venti pagine!”
“E che ci metti?”
“Ci metto tutta la ricreazione.”
“Che ti importa? Vuoi mettere una stupida ricreazione rispetto al privilegio di leggere il mio nuovo capolavoro?”
Si capisce che capolavoro è un’iperbole, si capisce che sta scherzando. Ma si capisce che non sta solo scherzando. Si capisce che ha capito una cosa importante, a differenza del solitario. Se non ci credi, o meglio se non dai agli altri la sensazione di crederci, di crederci oltremisura, non succede niente, non può succedere niente.
Il solitario cede. Si siede a un banco non suo, nell’aula rimasta semideserta. Gli altri sono fuori a mangiucchiare, a fumare, a farsi le poste, a ridere. Lui si paluda nella casacca di primo, solenne lettore del nuovo capolavoro dell’artista. Che resta lì, non si schioda, scruta, non governa l’impazienza.
“Già sei arrivato lì?” È diffidente. “Non correre, vai piano.”
“Non ti preoccupare, io sono veloce a leggere.”
Non fa in tempo ad arrivare all’ultimo punto fermo che già l’artista lo assale: “E allora? Com’è? Che te ne pare?”.
Il solitario vorrebbe dirgli: ascolta, non lo so. Non so cosa dirti. Non so se mi piace. Sì, per carità, sai scrivere. Sai anche scrivere. Glielo direbbe con una smorfia, la bocca si piegherebbe in un’espressione infantile, come davanti a una gioia negata. Sai anche scrivere, ma forse non è il mio genere.
“Non ti sembra già un film?” insiste, lo incalza.
Il solitario dice sì, dice: mi sembra già un film, sei bravo, è bello.
Non è che questo non sia ciò che pensa. Il problema è che non pensa solo questo. Ma non vuole deluderlo. Non ha nessuna intenzione di deluderlo. Anzi: teme di deluderlo. Lo sta già deludendo. È poco convinto, no? Si vede.
“Sei poco convinto!”
“Che ti devo dire di più? È bello!”
“Giura.”
“Giuro.”
“Allora aiutami a trovare un titolo.”
“Fammici pensare. Dammi il tempo di pensarci.”
Così il solitario, dopo cena, si mette a sfogliare libri di poesia a caso, pesca versi a mosca cieca. Ne trova uno, può andare. Ho mille ragioni di perderti. Se lo appunta. E mentre se lo appunta, pensa: perché glielo regalo?
Glielo regala per non deluderlo.
Glielo regala perché lui almeno – lui, almeno, eccolo lì: si mette in gioco.
Il solitario, invece, tiene tutto per sé. Scrive pure lui, certo che scrive. Vuole scrivere. Gli piace scrivere. Gli sembra che mentre scrive non è, non si sente goffo come nelle altre circostanze quotidiane, quasi tutte. Goffo forse no, non sempre. Insicuro. Mentre scrive è meno insicuro? Lo sarebbe, forse, se chiedesse a qualcuno: che ne pensi?
Non intende ricambiare la fiducia che l’artista gli accorda.
Se mai dovesse far leggere le sue pagine a qualcuno, non sarà lui. Per intanto si fa bastare buoni, ottimi voti in italiano. Stando ai numeri, in quel campo scolastico non ha rivali. Che espressione idiota. Si fida di questo primato. Andrà infatti in crisi quando saprà, fra qualche settimana, che Veruscka della II D, un anno avanti, ha una media più alta della sua.
Andrà in crisi e comincerà a guardarla in modo diverso.
No, non con invidia. Una stranissima sottile pervicace rabbia – contro sé stesso, contro la sua illusione. Lei non c’entra, c’entra lui e basta.
Hai perso il tuo stupido primato.
La guarda, la studia, se ne invaghisce un po’: in quanto depositaria di un segreto, titolare di un vantaggio. Che stupido.
All’artista non importa niente di andare bene a scuola. Importa il giusto. Si fa bastare i 7, i 7-, i 6 e mezzo. Concentra le energie su altro: sul primo film che vuole girare, la parodia di un horror appena uscito, ha una buona videocamera e costringerà diversi amici a entrare nel cast. Il solitario si sfila. Peggio per lui.
Perché è là, durante le riprese, su quel set improvvisato tra camerette, soggiorni, parchi pubblici, che sta per succedere qualcosa che farebbe bene a non scoprire in ritardo. (continua)





Vediamo se ho capito. L'incursione nel presente, che fin dall'inizio hai previsto come ingrediente dell'esperimento, prende spunto dall'odierno uso online di erotismo artigianale-tascabile, che ha radici in cinquantenni imprenditori arcinoti di oggi, giovani quando i protagonisti sedicenni del romanzo erano alle prese con i loro confusi progetti. Quando i quattro hanno visto American Beauty c'è una scintilla che li avrebbe proiettati nel futuro? Forse quel filmare dalla finestra di fronte, mettere un obiettivo, una lente tra il proprio occhio e il corpo di un'altra? È però un punto ancora da sviluppare. I seduttori digitali di oggi sono invischiati anche in quel mercato dell'effimero, quel "suk universale", altra promessa di un potere pericoloso, ma dai piedi di argilla. Altro spunto di possibile sviluppo. Importante notare che l'assunto da cui sei partito, cioè lavorare sui presagi di allora rispetto al futuro, da parte di uno scrittore onnisciente (perché ha già vissuto gli anni dopo l'adolescenza dei suoi personaggi e implicitamente della sua) è per ora ribaltato: difficile, se non impossibile, per i quattro immaginare il futuro non solo delle loro scelte, ma anche degli strumenti tecnologici a loro disposizione e l'influenza perturbante nella loro vita di adulti. Il dialogo tra il solitario e l'artista (che esce dalla sua categoria di attore, per la velleità di scrittore e che da aiutante lettore del solitario si rivela antagonista) racconta bene la sofferenza del confronto tra due identità in crescita.
Come non provare una specie di vertigine nel ritrovarsi prima della esplosione dei cellulare dei social net work di Amazon nell'impossibiltà di immaginarla?
Sentimenti e pensieri dei giovani possono essere rimasti gli stessi dei protagonisti?