I.4 American Beauty
Ripensaci
(segue)
È meglio non saperlo. È sempre meglio ignorare l’avvenire.
Né sarebbe confortato, il signor Spacey, dalla certezza minima (comunque una certezza, considerata da qui) di ritrovarsi ospite d’onore a un gala hollywoodiano, ormai più che sessantacinquenne nel maggio del 2025, passata la tempesta giudiziaria, pronto a ricevere applausi alla carriera, messo nella condizione di contestare l’ostracismo che ha subìto, di rivendicare la propria innocenza, visto che ogni accusa è caduta o archiviata.
Il signor Spacey non sarebbe confortato dall’approdo, dal riscatto, sempre che di riscatto si possa parlare; e si può capire: perché in ogni caso un decennio di vita – un decennio della sua vita! – somiglierà comunque a un insostenibile uragano nel cui vortice niente è rimasto saldo.
La fama, la reputazione. L’immagine di sé nello sguardo altrui.
L’immagine di sé allo specchio.
Non è stato un bello spettacolo. No. La fronte alta, il viso un po’ imbolsito.
Non è piacevole essere messi di fronte alle proprie debolezze.
Per dire, quegli otto membri della troupe di House of Cards che raccontavano di essere stati molestati... avevano ragione? Avevano torto? Mentivano? Risulta a ogni modo triste, e vagamente squallido. Anche se non fosse vero. Ma forse è vero, un po’ deve essere vero: il signor Spacey sa che il suo pene bisognoso, come lo definiva il personaggio a cui ha prestato il corpo nel film American Beauty, l’ha spinto a prendersi qualche libertà di troppo.
È desolante doverlo ammettere – prima di tutto con sé stesso.
Fatto è che al già turbolento ragazzo Kevin Spacey Fowler, espulso da un’accademia militare e in cerca di fortuna a Broadway, il signor Spacey adulto e fiaccato dall’uragano direbbe – mai potesse incontrarlo a ritroso nel tempo, risalire la corrente fino al punto di strattonarlo, prenderlo per il bavero dietro le quinte nel pomeriggio in cui sta provando una parte minima, il ruolo di un messaggero nell’Enrico IV – ecco, gli direbbe: ragazzino del cazzo, stai attento!
Forse lo prenderebbe a pugni: quello della boxe è un linguaggio che capisce, che gli piace. Io ti spacco la faccia, devo spaccarti la faccia, ragazzino del cazzo! Stai attento! Te lo ripeto ancora una volta: stai attento!
Basta poco a distruggere tutto.
Basta diventare adulti.
Lo guarderebbe come una controfigura giovane di sé stesso, come una matrice, come uno strafottente e ancora splendido presagio dell’uomo che sarà. Splendido in quanto presagio, verità incompiuta, essere in cammino, organismo dentro una metamorfosi di cui non conosce l’esito. Può ancora sterzare. Prendere altre strade. Può ancora –
Per questo Kevin Spacey preferisce il ragazzo Kevin Spacey Fowler, non può che preferire quel Kevin Spacey Fowler teso nervoso assetato di gloria al sessantacinquenne signor Spacey che si presenta redivivo e tutto sommato malinconico a un gala hollywoodiano.
*
“Niente è andato come sarebbe dovuto andare”, dirà un vecchio scrittore al solitario che lo sta intervistando per un giornale.
Allora il solitario gli porrà una domanda sciocca, una strana domanda che suonerà così: che cosa direbbe all’esordiente che è stato? che cosa direbbe a quel ragazzo?
Non lo so, risponderà lo scrittore. Credo che staremmo in silenzio per un po’, il ragazzo all’inizio della sua carriera e io, l’io che sono adesso, staremmo in piedi davanti al bancone con una bottiglia di birra in mano, a guardarci, a fissarci a lungo, tentando di non metterci a piangere.
Farà una pausa, poi aggiungerà: forse gli direi di ripensarci.
Ripensare a cosa?
Ripensarci. Ripensarci e basta. Gli direi di ripensarci e poi, una volta che l’avesse fatto, gli direi di ripensarci ancora, di provare a non mettersi a scrivere quel romanzo. Cercherei di convincerlo a rinunciare alla scrittura.
Il solitario, oggi, pensa che forse dovrebbe dire la stessa cosa al ragazzo che è stato.
Ripensaci. Alza gli occhi.
Ripensaci.
Alza gli occhi. Guarda il frutteto, oltre il giardino, che si slarga nel chiarore dei primi pomeriggi di gennaio, quando il cielo è sereno.
I compiti, annotati sul diario, dicono di studiare letteratura latina da pagina 221 a pagina 230.
La luce diurna ricomincia piano a rubare terreno alla notte. Così bisognerebbe restare sospesi, nell’illusione. Il secondo in cui l’asta del metronomo torna in asse, quel battito.
Ripensaci.
Ma poi perché? Perché ripensarci? Per difendersi? Per non essere delusi?
Niente, in ogni caso, sarà all’altezza del sogno che adesso coltiva.
Lo nutre come si nutre un animale domestico. La cura la delicatezza la concentrazione.
La verità è che è bellissimo in questo suo fidarsi di una piccola ossessione, senza riuscire a vedere niente, a immaginare niente, niente di niente. È tutto intero lì, nell’ora in cui dà forma al suo giornale domestico.
Uno stupido giornaletto domestico senza quasi lettori che non sia lui stesso, forse i genitori, distrattamente, e i nonni. Si piazza davanti allo schermo del computer e, rimandando l’appuntamento con la letteratura latina, si impegna a modellare graficamente il suo periodico intermittente, inserisce immagini, allarga il corpo dei titoli. Lui direttore, redattore, tipografo.
È un’operazione superflua, quasi insensata: il gioco di un bambino che si sforza di fare esistere l’inesistente, di rendere visibile – solo a sé stesso – l’invisibile.
Nel regno dell’invisibile, i lettori si moltiplicano, arrivano lettere alla redazione. La prima pagina sbuca lentamente da una stampante ad aghi che fa un verso strano, lo ripete, come un lamento. Lui intanto giubila, non sta nella pelle, il giornaletto sta prendendo corpo, è un entusiasmo ridicolo per questa unica copia; ed è assurdo forse che vi si dedichi con tanta partecipazione a sedici anni compiuti. Né lo direbbe a nessuno. Nessuno deve sapere.
Sì, bisognerebbe restare sospesi in questa illusione. Il secondo in cui l’asta del metronomo torna in asse, quel battito.
Tutto allo stato nascente.
Kevin Spacey Fowler, anonimo, sconosciuto anche a sé stesso, che prova la sua parte allo specchio.
Il solitario che si gira fra le mani la copia stampata del giornale autarchico, ci soffia su perché l’inchiostro si fissi.
Ripensaci.
Anzi no, non ripensarci.
Fidati che niente sarà più così puro, così incondizionato. Così autentico. Privo di scopo, fine a sé stesso.
Nel futuro, un caporedattore vero – sornione, distratto, greve, un caporedattore adulto che ti chiederà un pezzo facendoti sentire di essere arrivato a un traguardo, be’, non saprà niente di questo, è normale che non sappia niente di te e del tuo giornaletto domestico. Anche lui avrà giocato al suo? In un tempo che ha dimenticato, che è solo una scia sbiadita, una t-shirt di un’estate della giovinezza mai più indossata. Ti dà una risposta insopportabile, arida. Ma vaffanculo! Ti respinge.
E un direttore di giornale vero che non sei tu, di cui guadagnarti no, non la stima – chi se ne frega della stima – diciamo pure l’attenzione sarà uno di cui non ti importa niente, che ti pare privo di inconscio, ma dovrai fargli capire, sentire che attendi la sua approvazione, il suo consenso, mettendoti in una posizione di subalternità fra gente della stessa specie che adesso, col giornaletto domestico appena stampato, non sai nemmeno che cosa voglia dire.
Non pensi di nessuno, di quasi nessuno, che sia davvero stronzo, non conosci quel rancore, hai ancora tempo per attraversare i corridoi infuocati del risentimento, per arenarti nelle secche della frustrazione. E da lì poi finalmente trovare la via per disincagliarti, ma con minore purezza, con un candore che si attenua, si appanna fino quasi a disperdersi, con un entusiasmo messo alla prova e perciò in qualche modo ferito, in questo commercio di adulti che ha sempre, al fondo, qualcosa di insincero e di agonistico.
Una ininterrotta guerra di posizione. Estenuante, mortifera. Lascia segni ai bordi degli occhi – le orbite olivastre, livide, che nessuna crema antirughe cancella.
Preferisco il solitario con in mano il suo giornaletto uscito dalla stampante ad aghi ai suoi datori di lavoro odierni.
Preferisco il ragazzino insicuro che si lascia dire a brutto muso dalla titolare del bar per cui ha appena cominciato a lavorare come sistemare nella vetrina le brioche.
Preferisco chi non è ancora – chi sosta nell’indistinto – a chi crede di essere già. (continua)
Qui la mia lettura del capitolo
«I’m only seventeen, I don’t know anythin’» (Betty, Taylor Swift)






È vero, anch'io "preferisco chi sosta nell'indistinto", chi "può ancora -" e l'infinito delle scelte davanti. Ricordo di quando anch'io ero così, un po' come un mollusco sullo scoglio (splendido "La Spirale" di Calvino!) in cerca di vibrazioni che mi aiutassero a scegliere. Mi direi "Ripensaci?". Non lo so, non credo. Non credo di aver distrutto tutto, diventando adulta. Non sono all'altezza del sogno che ho coltivato, ma i sogni sono irrealizzabili per loro stessa natura. Però esiste ancora il puro, l'incondizionato, l'autentico. Alla fine guardo al mollusco di ieri con tenerezza e gli direi solo: Ascoltati! E quello che diventerai sarai sempre più tu. Però... ora basta riflessioni! Che gli facciamo fare a questo solitario? C'era sempre la Veruska della IID oppure l'horror dell'artista oppure una serata col muscoloso... attendo! E come sempre, grazie!
Una partita di tennis a quattro, divisi dalla rete del tempo. Nel "secondo in cui l'asta del metronomo torna in asse", c'è il prodigio della comunicazione fra i giocatori. Il Signor Spacey adulto e fiaccato e il turbolento ragazzo Kevin, controfigura giovane di sé stesso, che prova la parte allo specchio. Lo scrittore di oggi e l'esordiente che è stato, con il suo "periodico intermittente, saltuario di varietà, in un'unica copia". La posta in gioco è continuare a coltivare il sogno o rinunciarvi. Uno "gnommero", come direbbe Gadda, tra il desiderio di fama, di reputazione, "l'immagine di sé nello sguardo altrui" dell'attore, dello scrittore, da cuccioli. Ma anche il "dare forma" al proprio sogno entusiasta, senza saperne l'esito, unicamente per sé stessi. "Il chi non è ancora, rispetto a chi crede di essere già". Il tutto sulle ali del tempo, che accoglie la dialettica tra la messa in discussione del sogno giovanile e l'elogio dell'indistinto autentico a confronto con la guerra di logoramento, "in questo commercio di adulti che ha sempre, al fondo, qualcosa di insincero e di agonistico". "Ripensaci" con la consapevolezza del poi, "anzi no, non ripensarci", con la fiducia irripetibile dello stato nascente. Esiste una giusta scelta? L'autore a fine partita dà la sua risposta.