III.2 "Matrix"
Un senso di benessere
Le puntate precedenti si leggono qui
(continua)
“Nessuno ha fatto il tema sulla guerra in Kosovo, nessuno!”
Lo dice con una delusione che sta forse recitando un po’. Difficile condividerla: in fondo, state pensando, c’è libertà di scelta. Se mi dai una traccia sulla tecnologia, una su luoghi e memoria, una sulla guerra in Kosovo, be’, è naturale che...
“Era difficile!”, osa la compagna di banco dell’artista. La sua anima di sindacalista.
“Ma ne abbiamo parlato a lungo in classe”, risponde quella di italiano. “Ho la tentazione, ve lo confesso, di costringere tutti a svolgerla come compito a casa”. Si schiarisce la voce. “Nemmeno tu, nemmeno tu”, si rivolge al solitario. “E posso dire? Hai scelto un’altra traccia, ma il risultato è deludente. Deludente rispetto a quello che potresti e sapresti fare.”
Lui non si scompone. Resta zitto, lì per lì. Sente un calore strano salire alle guance. Ah, l’imbarazzo! Questa corrente che ci attraversa, questa specie di ebollizione degli umori interni che ci trasfigura.
“Avevo scelto un altro tema, all’inizio”, dice finalmente il solitario.
“E poi hai cambiato strada?”
“Sì. E mi è mancato il tempo di – ”
“Fare meglio. È come monco, o forse un po’ scialbo. Parli di un tuo ricordo, un ricordo che ti lega a un luogo, ma io ho sentito così poco.”
Eppure, nella furia, nell’ansia di fare tardi, si era sforzato. Si era impegnato. Ha inseguito nella mente l’esattezza di quell’istante – un istante tutt’altro che fatale, una strada di montagna, una mattina di luglio, un lago. Con un calcolo mentale nemmeno troppo immediato, non per lui, aveva messo a fuoco l’età dei suoi genitori quell’estate. Una rivelazione. E poi: la trasparenza dell’acqua fredda freddissima gelida; il piede che esplora timidamente la riva diventa un pezzo di ghiaccio. Bisogna prendere coraggio, tuffarsi, l’ora migliore è verso mezzogiorno, il sole a picco brucia i capelli, l’istinto di bagnarsi la testa è una molla, la catapulta, ti tuffi e rabbrividisci, e ridi perché l’acqua è davvero fredda, freddissima, e ti agiti, sguazzi, schizzi, ridi, guadagni il largo, ed è lì, dove tutto ora tace, giusto un fruscio, un gorgoglio, quasi niente, è lì che facendo il cosiddetto morto a galla, è lì che –
“Non ho sentito la tua emozione.”
Non un giudizio, una condanna senza appello.
“E il mio?” domanda l’artista, vuole sapere, smania.
“Fammi finire” risponde l’insegnante, severa. “Sto parlando di lui. Che cosa volevi comunicare?”
“Un senso di – benessere”, balbetta il solitario. Mentre lo dice, sente afflosciarsi la frase, il senso, il tema, come se il foglio sul banco, appena restituito con un voto medio, tiepido, un 7- che è forse peggio di un 5 dignitoso e sicuro, come se quel foglio si accartocciasse da sé, fosse appunto, in un attimo, carta straccia.
Un senso di benessere. Ma che stronzata. Troppo poco. Non è niente. Un senso di benessere lo dà il primo boccone di un panino, di un piatto di pasta, se sei affamato, un senso di benessere lo dà il sorso d’acqua fresca nella giornata caldo, un senso di benessere lo dà perfino farsi la doccia, o pisciare. Che misera misera misera cosa ti è uscita dalla bocca, solitario.
Non è di uno stupido senso di benessere che volevi parlare, ma di un’illuminazione, di uno sprofondare nel paesaggio come se ne fossi parte – ne eri, ne sei parte; di un sentirti tutt’uno con l’acqua, il cielo sopra la testa, le poche nuvole, le piante, il fruscio, il gorgoglio, è stato come cadere fuori dal tempo ma senza morire, è una verità fra le poche ricordabili con precisione dell’infanzia, di una tarda infanzia che già non è più solo infanzia, dove il corpo sa qualcosa che la mente deve ancora intuire e forse non afferrerà mai, mai fino in fondo, dove il guizzo, il sussulto di un muscolo, la reazione dell’epidermide – la pelle formicola, è pelle d’oca – sono una risposta impeccabile e istantanea alle sollecitazioni del cosmo, non c’è bisogno di parole, c’è un corpo che si abbandona all’istante – di nuovo: attimo, fermati, sei bello.
Non c’era bisogno di parole, c’è bisogno adesso.
C’è bisogno qui.
C’era bisogno nelle righe scritte a mano, inchiostro nero su foglio protocollo.
È successo al solitario ciò che un giorno, nel futuro – sarà intorno ai ventiquattro anni – gli verrà raccontato da un vecchio scrittore un po’ sornione sprofondato in una poltroncina del suo salotto. Gli è successo ciò che è successo anche allo scrittore, quando era un ragazzino: camminava in un parco cittadino, camminava in una bella assolata mattina qualunque, e un cardellino – era un cardellino? – gli si posò sulla spalla. E lui era così stupito, sconvolto. Temeva che il batticuore – tum tum – potesse spaventare il cardellino e farlo volare via. Allora ha provato a calmarsi, a rimanere immobile, a fingere di essere una pianta, e che la sua spalla, il suo braccio fossero un tronco, un ramo. E poi ha pensato: devo raccontarlo a mamma, è una cosa incredibile. Quando il cardellino, senza ragione, all’improvviso, si è staccato da quel sostegno misterioso ed è sparito, il ragazzino che sarebbe diventato scrittore si è messo a correre. E correva con le ali ai piedi e il cuore che scoppiava, perché doveva raccontare a sua madre l’accaduto, e allora a un passo da casa ha preso a gridare: mamma, mamma! Lei, preoccupata, si è affacciata per capire. Lui, con il fiato spezzato, le ha detto: un cardellino si è posato sulla mia spalla! La madre, rassicurata, ha accolto la notizia con indifferenza.
Lì, disse lo scrittore ormai anziano al solitario che lo guardava ipnotizzato, lì ho capito che quella frase che mi era uscita dalla bocca non era niente, erano solo quattro parole messe in fila ma incapaci di tradurre tutta l’emozione che avevo provato.
Lì, disse lo scrittore ormai anziano al solitario, ho capito che cosa significa raccontare. Che cosa significa scrivere.
Lo scrittore anziano, com’era quando il solitario lo conobbe
Avrebbe dovuto dire di più? Ma che cosa? Il solitario, sul suo banco di scuola, adesso è deluso. Deluso da sé stesso. Ha scartato un tema, ne ha scelto un altro, ha creduto di saper raccontare. Saper tradurre quell’istante di – no, non era benessere. Forse felicità? Pienezza.
Vorrebbe riavvolgere il nastro dei minuti, dei giorni, tornare lì, a guardare sé stesso dalla riva, come se si sdoppiasse – scrivere è anche questo. Vorrebbe essere, nello stesso momento, il non-più-bambino che fa il morto a galla in una tarda mattina di luglio sulle acque fredde di un lago di montagna, e lo scrittore che lo osserva, che si osserva – dunque, vivere è questo? È questo essere vivi. Miracolosa stranezza. È questo essere piombati sulla crosta del pianeta detto Terra, ovulo e spermatozoo, morula, embrione, tutto quel che segue, all’oscuro e poi alla luce, fino a trovarsi in quella forma a quella latitudine in quel segmento di storia universale in quella stagione detta estate per come cade nell’emisfero boreale per come si manifesta luglio sulla dorsale detta appenninica di una penisola, e ecco, questo: sentire. Sentire quel che ha sentito. Sentire quel che vorrebbe tradurre al meglio, in parole, ma le parole, le parole non possono che sfiorare l’intensità di quel sentire, riprodurla in scala. Il solitario si voterà a questo esercizio come a una vocazione spirituale, a una misteriosa e incomprensibile e dolorosa e esaltante e inutile chiamata.
Per ora, china la testa sconsolato sul 7-, sul banco, sul suo diario, mentre l’insegnante respinge la curiosità dell’artista, e si complimenta con il muscoloso.
“Non ho mai visto il film di cui parli, Matrix. Ma l’ho trovato un ottimo collegamento. Bravo!”. Sette e mezzo. “Però il tema che voglio leggervi è un altro”. L’artista pensa che si tratti del suo.
E invece il tema che sta per essere letto – be’, la prima a esserne sorpresa se non addirittura sconcertata è l’autrice. La memoria, i luoghi. Ma una memoria recentissima. Gira intorno a una notte buia e tempestosa di gennaio, al set che l’artista ha messo in piedi, un tentativo di film comico-horror – la notte buia e tempestosa che potrebbe essere l’incipit del romanzo che il solitario non riesce a scrivere.
Il tema che sta per essere letto l’ha scritto lei.
(continua)





Peccato dover aspettare una nuova settimana! Mi chiedevo che fine avesse fatto quel set del film horror in cui stava per succedere qualcosa che il solitario non avrebbe dovuto scoprire in ritardo. Spero che non lo scopra dalla lettura in classe del tema scritto da LEI. Sarebbe ancora più imbarazzante del giudizio della prof di lettere. E intanto questa nuova puntata mi tocca profondamente. Le parole non bastano. Non bastano certo per parlare di una guerra, quella del Kosovo, come quella contro Gaza oggi. Levi stesso lo diceva che la nostra lingua manca di parole per descrivere la demolizione di un uomo. E mancano le parole anche per esprimere le emozioni che attraversano il nostro corpo e il nostro animo nell’attimo rivelativo: chi siamo noi nell’universo, con queste molecole e questi genitori di una determinata età. Noi con questa nostra (e solo nostra) storia. Ecco… scrivere, che cos’è? “Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso”. Chi è in grado di trovare la parola capace di raccogliere quell’emozione e farla vivere al lettore? Certamente la prof di lettere ora, se leggesse le righe di questo romanzo a puntate, sentirebbe l’emozione del solitario. La sentirebbe TUTTA. Ma scrivere presuppone sentire, sentire intensamente, con un corpo di cui ci si fida e che invia segnali inequivocabili. E a volte, per le ragioni più disparate, le parole si perdono, scompaiono. Forse per recuperarle basta tuffarsi nel nostro lago ghiacciato, sentire i nostri brividi, osservarsi come "l’altro" di borgesiana memoria. Cadremo fuori dal tempo, anche noi, di nuovo. E magari lì, in quell’eterno presente, troveremo le nostre parole. Intanto mi godo quelle dello scrittore che ci regala le sue e che, come sempre, ringrazio.
Dopo la suggestione di un caso di memoria involontaria, solo accennato , segue ora la riflessione su come trovare le parole giuste per comunicarla a sé stessi e condividerla con altri. L'autore, che da solitario è diventato scrittore, si cimenta con il tentativo di tradurre in parole il sentimento della delusione, attraverso un intreccio di esempi, con più personaggi. "Quella di italiano" è delusa che il suo approfondimento sul Kosovo non abbia ispirato nessun tema, nemmeno da parte del solitario. Accusa senza appello di "deludente, monco, scialbo" lo scritto del pur dotato studente, che a sua volta rimane deluso per questo giudizio. Eppure il solitario sente di aver inseguito nella mente l'esattezza di un istante, di una mattina di luglio, in un lago di montagna. Ma non ha gli strumenti per tradurre tutta la profonda emozione che aveva provato. Si limita a un generico "senso di benessere", che si può scambiare con il soddisfacimento di un bisogno fisico, anche se è molto di più. Ma poi succede che i piani temporali si squadernano e si intersecano. Il sedicenne, otto anni più tardi, avrà la fortuna di sentire raccontare da un vecchio scrittore l'esperienza vissuta da adolescente (un cardellino posatosi sulla sua spalla) e la reazione, per lui deludente, della madre, rimasta indifferente alle sue parole, perché incapaci di trasmetterle il senso di quel piccolo importante accadimento. Il racconto del rammarico provato dallo scrittore servirà al solitario per prendere consapevolezza di non essere riuscito a raccontare la "pienezza" di quell'istante, di quel sentirsi tutt'uno con l'acqua gelida di quel lago, con il proprio corpo che si abbandona "al sentimento dell'essere vivo". Un panteismo personale, scoperto al di là dei contenuti scolastici, recuperato nella memoria. Quella delusione, però, ha condensato la sua cultura e ha fatto da stimolo a riprodurre "in scala" con le parole l'intensità delle emozioni. Questo sdoppiamento del sé, questo essere contemporaneamente il ragazzino e lo scrittore che lo osserva è il futuro rivelato del solitario. Non basta un aggettivo per questa sua "chiamata": il climax rende bene le diverse sfumature dell'autoconsapevolezza da grande. Anche l'artista è deluso. Non è il suo il tema che l'insegnante leggerà, ma quello scritto da lei, che gira intorno a "una notte buia e tempestosa" di gennaio, sul set di un film. Così l'autore riannoda i fili del suo racconto e il lettore, forse un po' deluso che ancora sia rimandato lo spunto generato da Matrix, si avvia finalmente a conoscere qualcosa di lei.