III.3,4 "Matrix"
3. "Il mondo com'era alla fine del Ventesimo secolo"; 4. L'ultimo capodanno
Le puntate precedenti si leggono qui
(segue)
III. “Il mondo com’era alla fine del Ventesimo secolo”
“Aspetti” dice il muscoloso all’insegnante.
Non è da lui, ma quel complimento deve averlo sorpreso, e lusingato. Non vuole lasciarlo cadere.
“Che cosa andava bene del mio tema, quindi?” insiste. Vuole sentirselo dire. Vuole che lo sentano tutti.
“Te l’ho detto. Mi è sembrato interessante che tu tirassi in ballo, ragionando sugli sviluppi e sui pericoli della tecnologia, quel film. Che, ripeto, non ho visto.”
“Noi sì” dice lui baldanzoso. “Anche se lui si è addormentato”, aggiunge indicando il solitario.
“Ah, questa è buona. E come mai? Era così noioso?”
“Macché. È geniale!” interviene, non interpellato, l’artista.
Eccoli, i maschi. Com’è che si dice? I galli nel pollaio.
Ci si mette pure il solitario, che a questo punto non ha nessuna intenzione di avallare l’immagine proposta dal muscoloso. Quello che si addormenta al cinema! Sa che è vera, ma vuole farla passare per una forma, se non di aperta protesta, di posizionamento critico. Un’altra volta si è rigirato la famosa frittata, avendo studiato poco per un’interrogazione di inglese. Ha chiesto se poteva passare all’italiano e si è avventurato in una ridicola – oggettivamente ridicola! – lettura sminuente dei romanzi di Dickens, appoggiata a chi sa più quale presunta autorità. Stavolta è diverso, ma c’è comunque da dire che non aveva riflettuto abbastanza su Matrix: deve provare a farlo ora, su due piedi, per provare a non essere – meglio: a non sentirsi – mortificato.
“Mi pare che giochi su una paura facile.”
“Che vuoi dire?”
“La paura del nuovo.”
“Davvero?” chiede l’insegnante, e si aspetta non di aprire un dibattito.
(C’è una larga zona grigia della classe che non aspetta altro, che se ne starebbe acquattata, nascosta, anche per due o tre ore, protetta da quel flusso di parole indifferenti. In parecchi nemmeno ascoltano, si sono scollati, se ne vanno su altre galassie, a questo punto impermeabilizzati. All’ultima fila, mentre si stiracchia per reagire al sonno, una ragazza fin qui non menzionata – silenziosa, sembra sulle sue, alterna giorni in cui sembra sciatta e disinteressata a tutto ad altri in cui gli occhi disegnati con la matita si accendono, intelligenti, partecipi – ecco, una ragazza fin qui non menzionata osserva la scena senza avere un’opinione, si limita a guardare i tre e sì, ecco, le capita questo: li immagina nudi. Non con desiderio: per gioco, con curiosità, e forse una sottile sprezzatura ironica. Deve quasi nascondere un ghigno – rischierebbe di essere coinvolta nella discussione. Non ha un parere su ciò di cui si discute, e non è nemmeno così interessata ad averlo. Adesso la sua immaginazione fa questo lavoro: denuda quei tre – lì, da dove è lei, vedrebbe di schiena muscoloso e solitario, e di tre quarti l’artista, un ciuffetto blando di peli appena sotto l’incavo del collo, la carnagione olivastra. Stanno facendo come alle medie, pensa, stanno un po’ giocando a chi ce l’ha più lungo. Sarebbe tutto ridicolo ma più esatto – lei oltretutto ha già imparato a non temere la nudità. Le piace, anzi, starsene nuda anche senza motivo. Le sembra di ancorarsi a sé stessa. Immagina i loro sessi flaccidi, i testicoli nascosti fra le cosce. A parte il muscoloso, che non sta mai composto, ha quell’abitudine di occupare lo spazio in modo un po’ greve – tipico, pensa lei, tipico dei ragazzi, quasi tutti. Li studia che gesticolano, si animano: l’artista è entrato a questo punto in pieno nel dialogo, evoca gli Oscar vinti dal film – quattro! – e quasi saltella sulla sedia; e lei se lo figura così, continuare ad agitarsi, però senza vestiti. Alzatevi in piedi, pensa, come si fa in parlamento, mostratevi, mostrateci i culi, abbiate il coraggio, siate voi stessi fino in fondo, senza paura, le viene davvero da ridere, perché mentre il solitario tutto serio tira fuori una citazione da Steiner – nome mai sentito, ma si capisce che è la sua carta matta, il jolly, il suo modo delicato di imporsi – se lo vede che termina il nobile intervento mentre il suo pene oscilla).
(Il minuto e fragile corpo umano. “Un corpo umano genera più bioelettricità di una batteria da 120 Volt”, Matrix).
“Da qualche parte” dice il solitario, “ho letto questa considerazione di George Steiner sul timore di nuovi secoli bui. Si tratta di paure che nascono dal confronto col passato come se fosse sempre un’epoca d’oro.”
“Spiegati meglio.”
“Il film – ecco, il film mi è sembrato tutto impostato su una dimensione di catastrofe. Lo sviluppo della tecnologia come qualcosa che poi ci distrugge, ribellandosi ai creatori. Da Frankenstein in giù non è questa gran trovata...”
Il muscoloso, già soverchiato dalla furia dialettica degli altri due, per ora resta all’angolo.
“La fai facile” sbotta, acido, l’artista. “Matrix mi pare un filo più complesso di come la metti tu.”
In effetti ha ragione. Ma nemmeno l’artista stesso, che pure l’ha trovato esaltante, sa che negli interstizi di quella scenografica smargiassa ipnotica e cupissima materia narrativa è annidata – l’istinto dei visionari? la casualità del gioco della finzione? – qualche inquietante verità, pronta a chiarirsi nel futuro. Né può intuire il peso di un algoritmo fuori dal perimetro dell’algebra scolastica; o cogliere l’unico tratto davvero struggente di un film che non concede quasi nulla alla poesia.
Sai quando, artista? Quando il severo Morpheus – da laggiù, da quell’angosciosa e grigia fine del Ventiduesimo secolo – svela all’Eletto che la realtà in cui gli umani sono convinti di vivere è una teatrale, per l’appunto fittizia e rassicurante ripetizione della vita com’era alla fine del Ventesimo secolo.
Più che quei numeretti verdi che scorrono e scorrono e scorrono senza posa su schermi neri, o i feti alimentati da liquami e scarti mortuari, più che il rivelarsi della coscienza “sinistra” dell’Intelligenza Artificiale, più della storia delle macchine-vampire che ci rubano energia per funzionare, più ancora di quell’espressione – “io digitale” – non leggibile con chiarezza nel 1999, ecco, più di tutto ciò che esalta gli appassionati delle distopie, c’è quella frase quasi smozzicata, buttata lì: il non-effetto speciale che vale un’epifania.
Nell’ingegnosa architettura di Matrix, nell’inespugnabile, soverchiante costruzione di una realtà parallela, il mondo in cui gli umani credono di vivere è fatto a immagine e somiglianza del mondo come era nel 1999.
Il mondo come era nel 1999.
Quando l’hacker eletto lo riattraversa consapevole dell’inganno, non può tuttavia contenere un moto di nostalgia per un certo ristorante in cui ha mangiato degli ottimi spaghetti.
Ah, cari, cari fratelli Wachowski, poi diventati sorelle Wachowski, che struggente, davvero struggente dettaglio avete ficcato in quell’ipertrofico monumentale esercizio di fantasia apocalittica!
Il vostro asfittico e nero Truman Show senza commedia ha al cuore la simulazione del mondo-come-è, e a questo punto come-era sul finire del Ventesimo secolo. Anche alla fine del Ventiduesimo, dentro Matrix, sembrerà di vivere nel 1999. I taxi gialli a New York, un ristorante che fa ottimi spaghetti, una ragazza bionda vestita di rosso che cammina tra la folla come per andare a una festa, i computer grossi come comodini, i primitivi telefoni cellulari con antenna, senza grazia, senza bellezza, con quei loro display opachi, verde palude.
Il 1999 come l’ultimo luogo sicuro. Lo era?
George Steiner, notissimo studioso di letteratura allora settantenne, inviterebbe a non idealizzare. A non idealizzare niente. Il mito dell’epoca d’oro è, per l’appunto, un mito. Gli umani hanno una inevitabile attitudine ad annoiarsi. Combattono la noia in molti modi. Anche facendo la guerra. A ogni modo, tendono a rimpiangere. A pensare – soprattutto se hanno superato una certa soglia anagrafica – che il meglio sia alle spalle. Ma il meglio, ricorda Steiner, si confonde con il peggio: a ogni epoca.
Tuttavia, lo stravolgimento che attendeva i novecenteschi al passaggio di secolo e di millennio era annidato dove sarebbe stato impossibile individuarlo, come la cimice che in Matrix si infila nell’ombelico dell’Eletto.
Era la tempesta invisibile dalla collina verde brillante del desktop di Windows, qualche nuvoletta sparsa, ma come in un cielo da fumetto.
E invece, invece oltre la collina c’era un tempo nuovo e vorticoso, c’era la Grande Accelerazione che ci avrebbe strattonati tutti, spinti nella meraviglia e nell’incertezza, sballottati a conquistare l’io digitale, a vedere smaterializzarsi ciò che aveva materia greve pesante sicura, a vedere ballare nell’impalpabile le parole le immagini i suoni.
Morivano, cominciavano a morire, non smettevano di morire – gli oggetti.
Oggetti, sì, sto parlando di oggetti. Mangianastri, walkman, videocassette, cabine telefoniche, telefoni a disco, televisori con tubo catodico...
Gente disposta a credere che il mondo sarebbe durato così per sempre, gente con i giornali di carta sotto il braccio, gente che – invecchiatissima – pretende di vivere, per quel che resta, più o meno come ha sempre vissuto è costretta a veder cambiare tutto.
A svegliarsi a cielo aperto in un paesaggio in cui nulla “è rimasto immutato tranne le nubi, e, nel mezzo, in un campo di forze di flussi distruttivi ed esplosioni, il minuto e fragile corpo umano”.
Sembrano forti e sicuri, sono spezzati dentro. Vulnerabili, per certi aspetti già morti. Estinti come specie preistoriche.
Così, se capita di pensare al mondo com’era alla fine del Ventesimo secolo, sente una stretta al cuore.
Sente di avere perso qualcosa che non voleva perdere.
IV. L’ultimo capodanno
“Di sicuro sappiamo che all’inizio del XXI secolo l’umanità intera si unì per festeggiare” (Matrix). “Esultammo della nostra magnificenza, mentre davamo alla luce IA” (sempre Matrix).
A poche generazioni di umani accade di vedere tramontare insieme un secolo e un millennio.
Ah, quella notte!
La Regina Elisabetta, sotto la cupola del Millennium Dome, frastornata, dava un bacio al principe consorte, fingeva di cantare Auld Lang Syne, tenendo per mano il primo ministro Tony Blair. Le rimanevano da vivere ancora due decenni. Il papa Giovanni Paolo II si affacciava a mezzanotte dalla finestra di San Pietro e salutava il mondo, il riflesso dei fuochi d’artificio faceva di un bianco elettrico la sua veste bianca. Gli restava da vivere un lustro.
Il solitario, il muscoloso e l’artista a cena dallo stesso compagno di classe. Casa libera, la madre dice solo: mi raccomando non fate danni, prima di scomparire insieme al più recente fidanzato. Il compagno con casa libera eccolo là, indaffarato ai fornelli. Sarebbe diventato un personail trainer.
“Non pensavo che sapessi cucinare.” “Infatti non so cucinare.” Però spiega che la nonna gli ha svelato i segreti della pasta col tonno. “La pasta col tonno non ha mai avuto segreti. Per nessuno.” Arriva sul tavolo molto scotta, comunque mangiabile; per il secondo, molti hanno portato misteriosi vassoi avvolti nella carta stagnola. Ne emergono fritture, zampone e lenticchie, insalate. “Il vassoio con le lenticchie non entra nel microonde. Le mangiamo così?”
Nessuno reagisce, le lenticchie sono gelide e collose, ma l’attenzione è spostata altrove: all’improvvisa sparizione del compagno con la casa libera, che un attimo fa era qui, e invece adesso, a occhio e croce, dovrebbe essere chiuso in camera con due ragazze, sparite anche loro. Due! Ma cosa sta succedendo? L’aveva detto, comunque: stasera voglio scopare, il duemila va festeggiato come si deve – intanto qui si sta gonfiando una curiosa bolla di malizia, afrodisiaca. Ci si guarda strano. Ci si guarda come a dire forse stasera bisognerebbe fare tutti l’amore.
È come se una gioia primaverile in questa notte di inverno si comunicasse da un corpo all’altro – dai corpi delle ragazze, stasera vestiti a festa, chi l’avrebbe mai immaginato di intuire un tanga sotto il vestito di quella che – stronzi! – chiamano la suora; e sembra quasi bello, stasera, il muscoloso, pensa Silvia, stasera che si è lasciato la barba un po’ lunga, o forse sono io che ho già bevuto troppo. Allora chi è venuto in coppia si infila in qualche anfratto, altri restano a parlare seduti sulle scale, ridono, si versano ancora da bere, chi fuma va fuori, in giardino, così capita che anche il solitario metta il naso fuori, l’ex suora gli dice vieni a farmi compagnia un attimo qui, il cielo è di un blu fuligginoso, resta sparso sulle campagne il fumo dei petardi, fa freddo, con un bicchiere di vino rosso in mano ride sempre più lontano e quasi non si tiene più in piedi, è il mondo che stasera gira troppo o sono io, non c’è vento, e ride e il suo piccolo corpo è come scosso da un riso che diventa tosse, singhiozzo.
Il minuto e fragile corpo umano.
Poi le dice: vieni qui, avvicinati, ci pensi che stasera comincia il duemila, ci pensi. Il solitario si avvicina dice: eccomi, e questa parola nel freddo degli ultimi venti minuti prima di mezzanotte è uno sbuffo di vapore a un paio di centimetri dal naso della ex suora, che getta la sigaretta lontano, infila le mani nelle tasche dei jeans stretti.
“Senti ma tu che sogni hai per il Duemila?” “Sogni, mah...” “Io vorrei che le cose fossero un po’ diverse, mi basterebbe che fossero diverse appena un po’ da come sono state finora.” “Ma non ti fanno paura le cose diverse? Le cose quando cambiano.” Lei non risponde, sta in silenzio, poi chiede una promessa. “Promettimi però che non ridi.” “Prometto.” “Guarda che dico sul serio.” “Anch’io.” “Allora senti, mi giuri che quando saremo grandi, se a venticinque anni, se a trenta, non avremo trovato l’anima gemella, noi due andremo a vivere insieme?”
Il solitario pensa che l’ex suora non sia lucida, stasera – in quest’ultima sera del 1999, in quest’ultima sera degli anni Novanta, in quest’ultima sera di secolo e di millennio come si fa a essere lucidi. “Guarda che non ho bevuto” dice lei. “Io e te a vivere insieme?” “Sì, se saremo ancora soli sì.”
Il solitario a questo punto non sa se questa è una cosa tenera o una cosa triste. Di sicuro, non è una dichiarazione o forse in parte lo è, forse bisogna dire cose tenere e tristi in una sera come questa. Se la porterà dietro per anni, la trasformerà in due pagine di un romanzo che scriverà circa dieci anni dopo, e che riprenderà di nuovo dopo altri quindici anni, quando scriverà uno strano romanzo a puntate intitolato 1999.
L’ex suora adesso si avvicina, il solitario riesce a sentire il calore che proviene dal suo corpo, all’improvviso accoglie la spinta lieve del seno di lei, ed è un abbraccio, poi un bacio rapido: solo labbra su labbra, per una frazione di minuto non quantificabile. “Adesso dimentica tutto questo, per favore” dice lei e si allontana, ma il solitario non la sente, sono le 23,59 e intorno esplode la felicità e il rumore di tutto, ma è strano perché il solitario
mentre la Regina Elisabetta finge di cantare sotto il Millennium Dome
mentre il papa si affaccia su piazza San Pietro
mentre i computer del mondo si preparano a riconoscere le cifre nuove e temono il millennium bug
mentre tutto questo e molto altro accade, il solitario al centro di un cortile buio è lontano dalla bestemmia allegra di suo nonno, dalle voci che urlano in casa del compagno di classe con la casa libera, dai brindisi di auguri, per un istante è lontano proprio da tutto, allora si domanda chissà cosa comincia adesso, chissà perché l’ex suora ha detto ciò che ha detto.
Poi pensa soltanto: abbiamo sedici anni, ed è il Duemila. (continua)







Questi capitoli 3 e 4 di “Matrix”, dopo l’interferenza del presente, sono un coacervo di tensioni concentriche a spirale, che aggirano con maestria i due temi principali del romanzo, il corpo e il tempo, e ne ricavano echi complessi di approfondimento, aprendo alla comparsa di nuovi personaggi contrassegnati solo da epiteti. Attenta ricerca di connessione collega ogni puntata, tenendo conto di alcune anticipazioni. La terza, “Il mondo com’era alla fine del Ventesimo secolo”, riprende lo spunto del riconoscimento a scuola dello scritto del muscoloso, l’ultimo nell’uso della parola, ma artefice dell’intuizione dal film Matrix sugli sviluppi e i pericoli della tecnologia. In realtà va detto che l’insegnante dà un giudizio positivo sul tema, senza aver visto il film. Sullo sfondo della classe “la ragazza fin qui non menzionata” che “ha già imparato a non temere la nudità”, poco coinvolta nel dibattito, insegue il suo gioco ironico di immaginazione dei corpi nudi dei tre compagni. Il solitario riconquista il primato di intelligenza, sottraendosi alla mortificante accusa di spettatore assonnato del film con il suo modo delicato di imporsi, citando George Steiner sul timore dei nuovi secoli bui, il mito delle epoche d’oro del passato e il loro rimpianto, per poi interpretare Matrix come un allarmistico monito sull’anima distruttiva della tecnologia. Ma l’artista sente, senza saperlo spiegare, che c’è ben altro. C’è “annidata una inquietante verità pronta a chiarirsi nel futuro” ed è anche presente un poetico dettaglio struggente nell’ipertrofica macchina apocalittica del film. Morpheus, dalla fine del Ventiduesimo secolo svela all’Eletto che la realtà è una fittizia realtà parallela, ripetizione della vita com’era alla fine del Ventesimo secolo. Ma lo “stravolgimento che attendeva i novecenteschi” era annidato, nascosto, come la cimice che in Matrix si infila nell’ombelico di Neo. Sul desktop di Windows c’era invece un tempo nuovo e vorticoso, “la Grande Accelerazione”, la sorprendente invenzione dell’io digitale e dello smaterializzarsi della materia, il nuovo impalpabile canale per parole immagini suoni e la transeunte vita degli oggetti, con la loro lenta inesorabile scomparsa. Così la fede nella durata delle cose si infrange, alla fine del Ventesimo secolo, contro un senso di perdita, che lascia una stretta al cuore. La quarta puntata, “L’ultimo capodanno”, vede tramontare insieme un secolo e un millennio nella notte del Millennium Bug. Mentre la Regina Elisabetta finge di cantare la canzone dell’addio ai tempi andati e la veste di un bianco elettrico del Papa Giovanni Paolo II si affaccia dalla finestra di San Pietro, la cena-festa dal “compagno con casa libera” si trasforma in una “curiosa bolla di malizia afrodisiaca”, che passa da un corpo all’altro. In particolare, in quest’ultima sera del 1999, ultima sera di secolo e di millennio, il solitario si avvicina alla ragazza “ex-suora” (con tanga inaspettatamente visibile sotto i jeans) che gli strappa la strana promessa, tenera e triste, di un avvenire condiviso, se saranno ancora soli a venticinque o trenta anni. Ma questa proiezione nel futuro a due lascia il posto a un’esplosione rumorosa di felicità collettiva e poi a un momento individuale ed emozionante, in una più grande aspettativa di inizio, con la dimensione giusta di un sedicenne sullo spartiacque della storia. Nell’intreccio di percezioni temporali si insinua il tempo di scrittura dell’autore, in un andirivieni di suggestioni aurorali ritornanti, con esiti sempre più limpidi, dai romanzi del passato ("Dove eravate tutti", "Una storia quasi solo d’amore") a questo esperimento in atto.
Puntata doppia, questa. Un bottino ricco per noi lettrici e lettori affezionati. Se volessi cercare un comune denominatore a questi due episodi, direi la trasformazione ma anche l’ambiguità del cambiamento, la sua ambivalenza. Si parte dal passato e dalla discussione su Matrix innescata dal muscoloso e poi proseguita dall’artista e dal solitario ("Il muscoloso, già soverchiato dalla furia dialettica degli altri due, per ora resta all’angolo.") Matrix, che è l’apoteosi dell’ambiguità, un labirinto da cui è difficile non uscire confusi e frastornati, ancor più se a guidarti c’è un personaggio sfuggente come Morpheus (Oneiros, the King of Dreams o Sandman, non a caso ispirato all’omonimo capolavoro di Neil Gaiman, e forse conoscere The Sandman aiuta a capire un po’ di più il Morpheus di Matrix ma anche Matrix stesso). Altro personaggio ambivalente è Neo (anagrammato The One, l’eletto), innocuo programmatore di giorno e abilissimo hacker di notte. Ambivalenti sono “The Wachowskis”, fratelli all’epoca dell’uscita del film e oggi sorelle. Ambivalente è la realtà che viene costruita, nella quale si annida una verità che neppure l’artista “che pure l’ha trovato esaltante” ha colto, una “inquietante verità, pronta a chiarirsi nel futuro.” E qui, nel giro, di poche righe, c’è uno splendido spostamento di punto di vista. Si passa da “nemmeno l’artista sa” a “Sai quando, artista?”, da un occhio esterno a un occhio interno che guarda dritto in camera, un occhio che dall’oggi, dal futuro, interroga il ragazzo artista nel passato. “Il vostro asfittico e nero Truman Show senza commedia ha al cuore la simulazione del mondo-come-è, e a questo punto come-era sul finire del Ventesimo secolo. Il 1999 come l’ultimo luogo sicuro. Lo era?” Nuova ambivalenza. Citando Steiner, il solitario, infatti, ci dice “il meglio si confonde con il peggio: a ogni epoca”. Più avanti, verso la fine della seconda puntata, abbiamo almeno altre due ambivalenze: una nuova compagna di classe che diventa “la ex suora” (dentro questo appellativo ci sono entrambe le sue identità) e la dichiarazione che consegna al solitario che “a questo punto non sa se questa è una cosa tenera o una cosa triste”. “Poi pensa soltanto: abbiamo sedici anni, ed è il Duemila.” È una cosa esaltante o una cosa triste? (“Così, se capita di pensare al mondo com’era alla fine del Ventesimo secolo, sente una stretta al cuore. Sente di avere perso qualcosa che non voleva perdere.”
(“l’arista a cena” è un refuso formidabile!)