IV.1 "Magnolia"
Il tema
Le puntate precedenti si leggono qui
(segue)
Nemmeno lei ama scrivere.
Non è strano. Come molti – la maggioranza – se messa di fronte alla possibilità di scegliere fra una versione di latino e un tema, oppure un compito di matematica e un tema, sceglierebbe di sicuro un tema. Puoi cavartela anche se non sai. Però resta il fatto che non le piace, che la mente gira a vuoto per troppo tempo – quanto? Mezzora? Mezzora è tantissimo! E comunque, mentre si decide a fissare le prime sillabe con una grafia minuta e tondeggiante sente tutto il peso della biro, come fosse una bacchetta di metallo.
Dalla fine del Ventesimo secolo, da laggiù, è più facile partorire qualche fantasia distopica tipo Matrix che immaginare miliardi di esseri umani presi dalla febbre della grafomania. Mark Zuckerberg (data di nascita coincidente con il titolo di quel proverbiale romanzo di George Orwell, 1984) è ancora soltanto il capitano di scherma della squadra di liceo. Neanche lui può supporre, a quell’altezza della storia e della sua, le tonnellate di parole che la gente sarà incentivata a produrre sui futuri – si chiameranno così – social network.
La gente, alla fine del Ventesimo secolo, una volta chiusi i conti con la scuola, scrive pochissimo. Scrive solo se deve. Scrive lettere, se ha un po’ di estro e di tenerezza. Cartoline dalle vacanze. O diari (di solito fino alla tarda adolescenza, poi smette. Talvolta continua, in segreto, con una ostinazione commovente e superflua). Scrive per amore, quello sì. Le lettere d’amore sono un genere a sé. Scrive però soprattutto per ragioni professionali – plumbee lettere commerciali, roba di lavoro che passa in modo già consistente dai corridoi aerei dello smistamento della posta cosiddetta elettronica. Scrive curriculum e lettere formali. Se può, non scrive. Parla. Parla al telefono. Lascia messaggi nella segreteria telefonica.
La gente lascia scrivere gli scrittori.
Questo, nel Ventesimo secolo. Via via che avanzava il Ventunesimo, miliardi di umani si sono ritrovati a scrivere temi, temini, fuori dalle aule scolastiche, temi e temini quotidiani, perlopiù brutti, privi di grazia e di ossequio alla grammatica di base, in una imprevista e generosa liberalizzazione della parola scritta, una democratica, improvvida estensione del dominio della sintassi – che tuttavia resta più arduo dell’illusione che lo sbriglia, che ci fa azzardare consecutio sciancate, incisi pericolanti. Scriviamo tutti, scriviamo malissimo. Scempiaggini, crudezze, spurghi, esercizi di autopromozione, capitoli di storia del bovarismo di massa, opinionismo senza patente, pensierini di Natale e di Ferragosto, quelli che odiano le feste e devono dirlo, ma odiare una data è come odiare sé stessi; e i reportage dalle vacanze, perfino le recensioni, commenti a libri e film da due soldi o a classici intramontabili con aria di sufficienza o il piglio di chi crede di essere il primo a scoprire e meriterebbe ceffoni bene assestati. Ma no, siamo contro la violenza! E non siamo conservatori! Non siamo vecchi zii burberi e borbottoni. Non ancora.
E comunque nessuno – nessuno! – è innocente.
Perciò tana libera tutti, eterno indulto, amnistia imperitura.
Teniamoci questa colla di scritturaccia a buon mercato che si appiccica alle dita, alle palpebre, che ci ruba il tempo di leggere altro, ci ruba il tempo di leggere.
Amen.
Di lei che comincia a scrivere il suo tema è bella la concentrazione. L’esitazione. L’insicurezza. I polpastrelli e il palmo della mano che sudano. La coscienza istintiva ma profonda della difficoltà.
Scrivere non è facile, come sembra agli umani del Ventunesimo secolo che scrivono, scrivono, scrivono. Scrivono e non sanno esprimersi, bel paradosso.
Lei invece lo sa che è difficile. Scrivere, esprimersi. E non lo ha dimenticato.
Ha scartato il tema sulla tecnologia. Ha scartato, ancora prima, quello sulla guerra. Stabilisce che quello sulla memoria e i luoghi è il più alla sua portata. O meglio: quello che non le sembra impossibile. Non intende, ne può, attingere a riferimenti letterari. Non ha nemmeno il temperamento, o l’inclinazione di chi – come farebbe il solitario, per dire – si mette a giocare con un passato più o meno remoto, leggendolo e reinventandolo come uno spaziotempo ideale. Rimpianto. Lei non rimpiange, non indugia sui ricordi.
Le piacerebbe anzi ricordare di più. Saper ricordare.
Invece qualche volta ha la sensazione di non ricordare quasi niente, che il passato, allontanandosi da lei, via via si cancelli. Tabula rasa.
Perciò costruisce la sua riflessione su un evento recente. Evento, poi. Non lo chiamerebbe così.
La prima riga che scrive dice
Abbiamo l’impressione di conoscere i luoghi domestici
Si sorprende. La frase le sembra giusta. Suona bene.
È curioso. Non sai bene da dove vengano certe cose che cavi da te stesso. Risorse, ecco, certe risorse. La frase funziona, la frase aggancia un’altra frase:
Abbiamo l’impressione di conoscere i luoghi domestici, ma non è così.
Virgola prima del ma.
Punto.
“Non è così” sta leggendo adesso a voce alta l’insegnante di italiano, “perché al contrario, se ci capita di osservarli in una luce diversa, sembra di scoprirli in quell’istante”.
Wow, pensa il solitario.
“Non so se avete capito” glossa l’insegnante. “La vostra compagna sta dicendo, in sostanza, che l’abituale può diventare-”
Si ferma. Guarda gli studenti negli occhi, quasi a uno a uno. Aspetta che qualcuno completi. Lei quasi avvampa, tirata in ballo contro il suo volere. Poco convinta, a ogni modo, di potere essere presa a modello. Forse si sottovaluta. Comunque, non è a suo agio.
Nessuno risponde. La lettura prosegue. Ed è l’approdo alla similitudine che sta per arrivare – nessuno, tranne l’insegnante, la chiamerebbe così – ad accendere lo stupore del solitario. L’artista si è, se non distratto, isolato: nell’attesa di potersi riprendere la scena. E se la riprenderà tra un istante, perché il seguito del tema lo riguarda.
Ma ecco, intanto, la frase che aggancia le precedenti
Abbiamo l’impressione di conoscere i luoghi domestici, ma non è così.
Non è così perché al contrario, se ci capita di osservarli in una luce diversa, sembra di scoprirli in quell’istante. Lo stesso può accadere con le persone.
Il solitario resta imbambolato.
Non è solo una questione di contenuto. È una questione di forma.
E comunque, venendo al contenuto, è piuttosto esatto – gli pare.
“Non lo leggerò per intero” precisa l’insegnante, “salterò qualche passaggio, ma-”
E qui il solitario vorrebbe strapparle il foglio protocollo di mano, e non può. E visto che di solito insieme alla bella si consegna anche la brutta copia, teme di non poter conoscere il contenuto per intero. È una prospettiva quasi terribile. Sta cominciando a capitargli con certi libri, certi romanzi. Non tutti. Non tutti nemmeno fra quelli che gli sembra di amare. Certi romanzi che diventano magnetici: tra qualche mese, in estate, sarà così con L’amante di Abraham B. Yehoshua. Non riuscirà a mollare, a staccarsi. Si innamorerà di un personaggio, la ragazza di nome Dafi di cui un altro personaggio dice il suo sguardo passa su di me come un vento caldo, se ne sta lì seduta, un po’ ascolta, e un po’ sorride a sé stessa.
Lei comunque no, al momento non sorride nemmeno a sé stessa. Come fosse sotto esame. Ma conosce già l’esito – è andata bene. Quanto? “8” vedrà scritto in rosso in fondo al tema, non credendo ai suoi occhi. Conosce già l’esito e si sente comunque sulle spine, troppa attenzione, non è abituata.
L’insegnante si ferma – dice così – sull’ambientazione. “La vostra compagna ha scelto un luogo preciso e una situazione molto specifica. Ha scelto di mettere in gioco qualcosa che le è capitato, ha parlato di sé”.
Oddio, oddio. Ha parlato di sé!
Mentre l’insegnante dice questo, lei pensa con sollievo – dura poco, qualche secondo – all’indecisione con cui aveva affrontato il dilemma dell’uso della prima persona. Si può dire io in un tema? È una cosa che dovrei sapere, ha pensato, ma non ricordo la risposta. E non mi va di chiedere. Forse sì, si può. Ma quali sono le eccezioni? E fino a che punto esporsi?
Fatto è che le è venuto naturale mettersi a raccontare, via via più sciolta, di come le era apparsa diversa la casa dell’artista nella sera in cui hanno girato qualche scena di quell’horror comico-demenziale.
Non era convinta, si è fatta trascinare. Ha già passato un numero consistente di pomeriggi da lui. Fanno i compiti insieme, guardano film. Giocano al karaoke. Fanno gli scemi. Come faccio a dirgli di no? Conosce bene la sua cameretta. I poster. I vhs, i dvd. L’Oscar finto che troneggia su uno scaffale. I suoi disegni stile manga. Scartoffie, libri. Conosce bene la casa, i genitori di lui. È quasi di famiglia ormai.
C’è stato un momento – luci spente, lui che si aggirava con la piccola telecamera in soggiorno facendo versi strani, chiedendo a gesti al fratello di fare rumore spostando sedie e mobili – un momento in cui lei, rannicchiata dietro a un divano nella parte di colei che, atterrita, dovrebbe provare a difendersi dalle strane presenze che infestano la casa, un momento fulmineo in cui la torcia in mano al fratello dell’artista ha illuminato freddamente lo spazio e ha avuto l’impressione di essere davvero in un film horror. Ma la cosa più strana e imprevedibile è successa quando l’artista l’ha convinta a prestargli come set anche qualche stanza della casa in cui vive da qualche anno. Non è cresciuta lì, si sono trasferiti che era già grande.
“L’esattezza” continua l’insegnante, “l’esattezza con cui la vostra compagna, raccontando un gioco cinematografico, ci fa avvertire – lo studierete in filosofia – l’Unheimlich-”
L’Un- cosa?
“Il perturbante che si annida nell’usuale...”
L’imbarazzo di lei aumenta. Le sembra che si stia parlando d’altro, non del suo tema. O di un’altra persona.
“Il passaggio più bello e convincente del tema è quello in cui una scena simile alla scena già accaduta in casa dell’amico si ripete nella cameretta della vostra compagna. La notte, il buio, la luce improvvisa; e lei che commenta: Mi sono sentita estranea a quella stanza, come se non ci avessi mai vissuto, come se non fosse stata mia. E forse è così che mi sono resa conto che non lo era ancora. Vedete? Ha dimostrato di avere perfettamente inteso il senso della consegna: i luoghi e la memoria. La domanda sottesa alla traccia è proprio questa: quand’è che possiamo dire nostri i luoghi che abitiamo?”
Il solitario eccolo lì. Attonito, disarmato, scosso. Che esagerazione! Però è così che si sente. Che può farci?
“Quindi hai fatto il tema migliore” le dice, dopo la campanella dell’una.
“Così pare” risponde lei, senza sorridere.
“Mi piacerebbe leggerlo tutto.”
“Non c’è molto di più di quello che hai sentito. E comunque-”
“Comunque?”
“Comunque ho consegnato brutta e bella copia.”
“Allora dovresti ridirmelo a voce.”
“Figurati, io già non mi ricordo più niente.” Fa una pausa. Poi aggiunge: “Se non i dettagli che ho omesso”.
Oddio, oddio.
Fai finta di non essere curioso. Simula indifferenza, solitario! Provaci. Dai a vedere che non te ne importa niente. Falle capire che sei superiore.
Ma perché?
Perché il tuo personaggio è questo, solitario. Questa è la tua maschera.
Ma voglio baciarla. Stringerla. Toccarla. Leccarle la pelle.
Non pensarlo.
Entrarle dentro.
Non pensarlo.
“Ah” fa il solitario.
“Non vuoi sapere?”
Di’ di no, solitario. Di’ di no.
“Sì, vorrei sapere.”
(continua)





Attraverso lo svolgimento del "tema migliore", a lungo (volutamente) rimandato, e le glosse centellinate dell'insegnante, conosciamo qualcosa del personaggio di "lei", ma soprattutto aggiungiamo elementi interessanti sulla scrittura come fenomeno sociale e sulla impossibilità di prevedere, alla fine del Ventesimo secolo, quello che sarebbe successo nei primi decenni del secolo seguente, riguardo a questa forma di comunicazione e al suo epocale stravolgimento. Ma il romanzo-saggio lascia quasi subito spazio alla trama, con la gustosa variante del finale, dove l'autore dialoga con il solitario, dandogli consigli di comportamento, a cui il solitario però si ribella. Nel 1999 è più facile proiettarsi in fantasie distopiche che immaginare moltitudini grafomani generate rapidamente dai social network di Mark Zuckerberg, che allora è solo capitano di scherma nella squadra liceale. Ma forse passare dalle tenere lettere d'amore, dalle cartoline vacanziere, dai diari, dalle plumbee lettere commerciali alla imprevista "liberalizzazione della parola scritta", a un "bovarismo di massa, opinionismo senza patente", a una sufficienza presuntuosa di recensioni e commenti, ha qualcosa di distopico. Soprattutto questa "scritturaccia" ruba il tempo di leggere. Se invece si ritorna in quell'aula scolastica, isola- laboratorio di temi, si delinea il profilo di una sedicenne scrivente. "Lei", concentrata, esitante, cosciente della difficoltà di scrivere, non indugia su ricordi lontani, ma sceglie un'esperienza recente (un ambiente domestico trasformato per gioco in set cinematografico). "Lei" riflette su "certe cose che cavi da te stesso", prova imbarazzo a essere presa a modello, accetta di parlare di sé. Quando si sente estranea nella sua cameretta, vedendola "in una luce diversa", "Lei" individua genialmente "il perturbante che si annida nell'usuale". E infine dichiara di aver omesso dei dettagli al solitario, a cui scatta una reazione di desiderio per l'autrice di quello scritto, desiderio che vorrebbe esprimere esplicitamente, in barba ai consigli di prudenti strategie simulatorie. Con questa puntata tutti i personaggi sono a fuoco, compreso l'autore nelle due diverse età. Al sistema dei temi principali, corpo e tempo, individuati fin qui, si impone alla grande la centralità della scrittura.
Le preferenze scolastiche vanno al tema e non alla matematica, piena di numeri, che ti arrovella e ti incarta il cervello. Il tema di Lei è come il peso della biro che racchiude tutti i pensieri. Dove va la scrittura nel ventesimo secolo, quando alle spalle ci siamo lasciati le cartoline colorate, gli usuali auguri per le feste comandate? Scrivere diventa più raro, come un respiro soffocato dalla tecnologia, segreterie telefoniche, brevi messaggi sul cellulare, non più lettere, se non quelle d'amore. Lo scrittore asserisce che le lettere d'amore si scrivono ancora, almeno quelle sono rimaste. Il computer stesso si vergognerebbe di mostrare simili sentimenti, ahimè.!...
Si lascia scrivere gli scrittori, ma scrivere vuol dire esprimersi e Lei lo sa, per questo scarta il tema tecnologico e sceglie la riscoperta dei luoghi o delle persone, viste con ottica diversa. E' premiata, prende un voto bello, il migliore della classe. Il solitario vuole leggere il tema, Lei devia il discorso, ma il solitario, deve, in teoria, continuare a indossare la maschera che ha sempre indossato. Ha compreso cosa significhi " il perturbante che si annida nell'usuale". Vuole baciarla, fare l'amore con Lei, penetrarla e altro. Vorrei sapere...termina la puntata con il solito sospeso composto da due parole ... Vorrei sapere... Ingegnosa trovata per un autore che sa farci sognare e condividere i suoi pensieri, fino al prossimo appuntamento.