IV.3 "Magnolia"
"Le apparenze"
È successo. È arrivato. Come previsto. Non dico il blocco, ma la sosta più lunga, l’incertezza. Ho dovuto pensarci più a lungo. Ho cominciato a scrivere questa puntata tardiva su una spiaggia sarda, su un quadernetto, a mano. C’era molto vento.
Le puntate precedenti si leggono qui
(segue)
Lo scrittore – direbbe chi legge – ora è tenuto ad andare a fondo nella reazione del solitario. Sarebbe tenuto a scavare nella psicologia.
Ah, quante energie spendiamo sfidando continuamente questo gran feticcio della cosiddetta Psiche. La nostra, l’altrui. Di continuo cerchiamo di capire, sapendo di doverci il più delle volte, e già in anticipo, arrendere: tanto davanti alle imprevedibili uscite e azioni di chi ci vive accanto, quanto a quelle dell’estraneo/a che ci portiamo dentro.
Il Romanzo, ben prima dell’analisi, ha giocato quasi tutte le sue carte – e le sue illusioni – sulla scommessa di fare luce nella testa di un essere umano. Assimilandola a una stipatissima mansarda. Ma in una frase letta casualmente oggi su un giornale il solitario trova una pista sghemba e per certi aspetti quasi confortante: “Non bisogna mai, quando parliamo di qualcuno che ci sta a cuore, trascurare le cosiddette apparenze in nome di chissà quali verità nascoste all’interno. Siamo esseri umani, mica armadi. All’interno abbiamo solo la dannata macchina: organi ciechi e deperibili a mollo nel sangue, ostaggi del tempo”.
il foglio di quaderno su cui ho cominciato a scrivere la puntata
Forse è un’esagerazione, ma la prenderò per buona. Almeno in questa circostanza. E anziché indossare la muta del palombaro che si immerge nel mare scuro e tempestoso dell’inconscio, convinto di portare a galla qualche segreto, qualche oggetto affondato nel tempo, resterò sulla superficie dell’acqua.
Le apparenze.
La rabbia e la furia le contiene nel perimetro della sua cameretta. Fuori, l’apparenza dell’imperturbabilità.
Anche di fronte a lei, al suo “Mi ha detto che ti piacciono i ragazzi”, non è nemmeno arrossito. O per essere più esatti: crede di non essere arrossito. Non che abbia chiesto conferma, ma la sua apparente indifferenza ha prodotto un silenzio prolungato che deve averla sorpresa, se poi ha detto: “Be’?”.
Be’ = non dici niente?
“Tu credi questo?” le ha domandato.
“Se anche fosse, non sarebbe un problema, no? O per te lo è?”
“Ti fidi più di lui che di me.”
“Che c’entra fidarsi?”
“Non lo so” ha risposto sbrigativo il solitario e le ha detto ciao.
Ma vaffanculo va’. Vaffanculo. Maledetto coglione. Hai gestito, al tuo solito, le apparenze, ma a che pro? Che ci hai guadagnato? Dalle stesse – stando all’indicazione della frase letta oggi casualmente, la frase di uno scrittore – siamo tenuti a soppesare bene quella freddezza. E a giudicarla in quanto tale, non per ciò che eventualmente nasconde.
Bene. A questo punto resta tuttavia da studiare anche l’apparenza di lei. Un tono vagamente inacidito, o sostenuto. Altrettanta apparente indifferenza alle presunte preferenze sessuali del compagno di classe. Avremo tempo per approfondire: per intanto, basti sapere che a un’amica, nel pomeriggio, racconterà della breve conversazione mostrandosi delusa dall’inerzia di lui.
“Capisci? Stava lì come un pesce lesso. Non diceva né sì né no, non diceva niente.”
“Ma a te in fondo che importa?” domanda, opportunamente, l’amica.
E lei, che è diversa da lui, non si ferma alle apparenze. “È difficile capirlo” dice. “Ma è quello che vorrei. E mi fa imbestialire il suo nascondersi e scappare. Come si fa a essergli amici, così?”
Una cosa la omette anche lei. Ma non è questione di apparenze. Semmai, di dubbi. Ha pensato – sì, lo ha pensato: se verso di me non ha mai mostrato segni di interesse, mai mezza battuta, mai uno sfiorarsi per sbaglio, ecco, forse la risposta è nel verdetto dell’artista: “Gli piacciono i ragazzi”.
Fino a qui, potrebbe anche dire tutto all’amica del cuore. Magari la prossima volta. Ma glielo dirà. Il problema è che deve capire se la cosa le dispiace. Cioè, se le dispiace che a lui piacciano i ragazzi. Se le dispiace che a lui piacciano i ragazzi – non in assoluto, ma nello specifico. Se le dispiace che a lui piacciano i ragazzi e se questo esclude che possa piacergli una ragazza. Se le dispiace che a lui piacciano i ragazzi e se questo esclude che possa piacergli lei. Sia chiaro: deve capire meglio se lui le interessa davvero, se le interessa in quel senso. Ma la frase dell’artista le è caduta addosso come una sentenza triste. Una porta che si chiude per il vento, di colpo, alle spalle; la chiave è rimasta dentro.
scattata in questi giorni, passando accanto a un muro, verso il mare
Ha bisogno di tempo per pensarci. Non le viene, al momento, da ragionare più di tanto sull’ipotesi, che pure non esclude, di una trovata dell’artista, una bugia pettegola, e gelosa. Se lo fosse, perché il solitario non lo dice? Perché non dice niente? Perché resta zitto, inebetito, lontano? Allora forse è vero, forse è proprio questo il punto – e se ne vergogna. E lei avrebbe dovuto avere più tatto. Fa la cosa stupida di cercare indizi proprio lì: nelle apparenze. Strano è strano, pensa, e si corregge, come se fosse un’offesa. Per certi versi è delicato. Freddo, ma delicato. È composto, ordinato, non alza la voce, se ne sta lì, con le sue penne, i suoi quaderni... sul banco tiene l’essenziale, i libri sono foderati... boh, ma che sciocca, che ne so se questo c’entra... non parla di sesso, non mi pare, o lei non l’ha mai sentito... Ilaria una volta, a una gara di latino o non so in che trasferta, disse che poteva tranquillamente dormire con lui, è innocuo, disse una cosa così, e a lei era sembrata, be’, ecco, cattiva... e ora le torna una situazione precisa, in classe prima dell’inizio delle lezioni, le uscì una frase un po’ volgare – si parlava di dimensioni del pene, scherzando, e a lei uscì una frase volgare, che imbarazzo a ripensarci, le pare di sprofondare nella vergogna, disse qualcosa tipo che non era importante fosse enorme ma piccolo no, piccolo a che serve? Non lo senti, una cosa così, per ridere. Lui uscì in silenzio sgranando gli occhi. E che avrò detto mai? Il giorno dopo lei glielo chiese: perché te ne sei andato? Era una battuta, una cazzata dai. Lui rispose: non lo so, non mi sei sembrata tu in quel momento. O qualcosa del genere. Le apparenze!
Ci era rimasta male, l’aveva fatta sentire sbagliata per una scemenza. Pensò anche che avesse un problema in quel senso, le dimensioni. Ma boh. Non pensò che a lui quella frase rese praticamente visibile che lei avesse una vita sessuale. Ovvio. No. Non a quindici o sedici anni, non sempre. E comunque, avrebbe fatto volentieri a meno di saperlo. Avrebbe fatto volentieri a meno anche di dover scacciare certe immagini che a quel punto gli arrivavano a folate, eccitanti, schifose.
Domande, domande. Perché il solitario non va a parlare con l’artista? Perché non si difende? Perché fa finta di niente?
Lei un pomeriggio chiama il muscoloso. Parlano per qualche minuto di niente. Poi, con finta distrazione, gli fa: “Ma secondo te a lui piacciono le donne o gli uomini?”.
“Non lo so, che domande mi fai. Non so che dirti. Non ci ho mai pensato.”
“Non ti ha mai detto niente?”
“Boh, non mi pare.”
“Sforzati.”
“Una sera, in gita a Barcellona, disse la frase leccare la fica.”
“A che proposito?” domanda lei, e si sente – no dai, non sollevata. Un minimo speranzosa. Speranzosa, imbarazzata, più imbarazzata che speranzosa, al momento.
“Non me lo ricordo. Ma mi stupì, detta da lui.”
Fa una pausa.
“Ma sono anche frasi che si possono dire proprio per nascondere, per recitare una parte.”
Ecco. Non ha ottenuto granché. Resta sul tema, domanda ancora: “Ma in classe nostra c’è qualcuno che secondo te è gay?”
Il muscoloso fa il nome dell’artista.
Lei pensa: li ha neutralizzati entrambi. L’unico del trio in dialettica col femminile sarebbe a questo punto lui, autoproclamato tale.
“Ah. Mica sembra.”
“Ma non è che sono tutte macchiette.”
Ha ragione. Che pensiero stupido. Che vuol dire sembra? Le apparenze.
Il muscoloso si giudica etero al cento per cento. Non ha dubbi. Non ha curiosità. O le reprime? No, non gliene importa niente dei maschi. Se non come compagni di bevute e di calcetto. Come complici nel tifo e nelle confidenze. Nei viaggetti, per l’appunto, in cerca di fica.
Il tardo Novecento, a queste latitudini e forse quasi dappertutto, è un’epoca ancora piena di schemi. Ipoteche ideologiche. Etiche. Estetiche. Spirituali. I nati nella penisola che mi offre questa lingua, sono spesso blasfemi, ma forse proprio per questo molto ancorati ai rudimenti e comandamenti dell’educazione cattolica. Fare finta di niente è difficile. Non commettere atti impuri è più minaccioso di non desiderare la donna d’altri. La morale cosiddetta pubblica è meccanica, binaria. La sterminata provincia aggiunge appiccicose e occhiute diffidenze, quando non aperte ostilità, verso l’eccentrico, lo sghembo, l’alternativo. Ricchione checca finocchio frocio, parte del più diffuso turpiloquio, sarebbero in filigrana anche presunti marcatori di distanza. Vaffanculo, detto spesso e perlopiù senza pensarci, rimanda alla sodomia come a una condanna. La rivoluzione sessuale è arrivata tardi e male, come certi segnali televisivi nei comuni montani, i canali ammiragli sono quelli dell’ipocrisia che conforta. Il giovane maschio, fra breve esentato dal servizio di leva, cresce ancora – quanto all’educazione sessuale – all’ombra di un padre per cui avere le palle, avere i coglioni significa mostrarli alla bisogna come consistenti prove di coraggio e di sicurezza di sé, segni inconfondibili di una virilità rigida e assertiva, prepotente, misurabile a letto quando si castiga la malcapitata. Così è. Le eccezioni sono rare. I non detti parlano abbastanza. E dove non vi fossero indicazioni, la squadra il branco il drappello di goliardi fanno da supplenti anche un po’ oppressivi. Te la sei fatta quella? Te la faresti quella? Mark Zuckerberg nel 1999 ha quindici anni, tra quattro si inventa Facemash, il sito Internet per mettere ai voti le foto delle ragazze di Harvard.
Allora rispondi sì, me la farei – anche se non sai ancora bene che significa. La sfondo. Il porno è ancora parecchio analogico. I giornaletti si possono rubare negli autogrill. Le videocassette sono in qualche anfratto delle case – area di influenza paterna, di solito. Le sessioni di masturbazione collettiva sono sequenze di sguardi impacciati e turbati, mascherati da tronfia esibizione erettile. A qualcuno mancano ancora i peli sul pube. Il confronto sulle misure genera l’ossessione inscalfibile. E per un Valentini o Gentili che hanno peni già adulti, grossi, sguainati come spadini sotto le docce dopo piscina, c’è una silenziosa maggioranza che finge disinvoltura, scapperebbe via con le mani a coppa sull’inguine; o resterebbe a studiare quel lembo di carne altrui con un misto di ammirazione, di invidia, di repulsione, di desiderio.
Siamo tutti impastoiati. Atterriti dalla confusione. Pronti a respingerla di fronte al giudice che osserva. Io? No, per carità.
Il guru del maschio vincente ha la faccia di Tom Cruise in quel film che, in prima battuta, vedrà solo l’artista. Magnolia.
Gli tocca la parte di un tizio che fa il professore della seduzione galvanizzando platee di maschi adulti nel tardo Novecento. In realtà è pieno di rabbia e di paure. Ma sul palco alza la voce: “Rispettate il cazzo. E... domate la fica” (Applausi). “Domatela.” Sul palco urla: “Sono io quello che detta le regole. Sono io che decido se dire: Sì! (Pubblico: Sì!) No! (Pubblico: No!) Adesso (Pubblico: Adesso!) Qui! (Pubblico: Qui!) (Applausi) Perché è un principio universale. È un principio evolutivo e antropologico, è... biologico. (Mima i gesti dell’accoppiamento) È animalesco. Noi... siamo... maschiii!”.
(continua)





Brividi sulla pelle, spilli che riacutizzano le sensazioni di questi giorni a fronte dei siti sessisti contro cui (finalmente!) sembra che si inizi ad agire seriamente. “Noi…siamo…maschiii!”. Che schifo. Questo significa “essere maschi”? Domare? Votare? Imbestialire? E stanotte lo scrittore - che è scrittore in tutto e per tutto, anche con un un piccolo, assolutamente trascurabile, “blocco” - lascia che un vento sardo che gli tocca il volto e la pelle muova il suo sguardo verso la superficie del mare. Ma sai, scrittore, che sei proprio bravo? Perché mentre dici di non voler fare il palombaro, non puoi rinunciare alla tua vera natura. E il palombaro lo fai lo stesso. La superficie del mare può essere blu o azzurra o verde acqua oppure può essere un “palpitare lontano di scaglie di mare”. E tu sei scrittore: ti “sta a cuore” il tuo personaggio, il solitario (sei tu ragazzo? O una potenziale versione di te? L’arte può tutto. Raccogliere, descrivere, trasformare). È un personaggio, ormai divenuto tale, che “sta a cuore” a tutti noi. E la sua “freddezza” a me sembra piena di fuoco. Ma soprattutto ho amato il modo in cui, da “acrobata profondo”, hai dipinto l’apparenza di Lei, scavando nelle sue azioni, nei suoi dialoghi con l’amica (dialoghi che ovviamente hai inventato tu!). Questo fa uno scrittore: ama i personaggi e ne scava la profondità, quella dell’animo e quella dell’apparenza. Perciò ti ringrazio. E di fronte a inizio ottobre che si avvicina sento un altro brivido. Piccolo ma c’è. Dici: “avremo tempo per approfondire”. In realtà il tempo che rimane è poco. Tu, come sempre, saprai gestire anche queste settimane. Ma io, invece, mi chiedo quanto mi mancherà questo appuntamento settimanale, che ormai attendo con curiosità bambina. Ecco che cosa fa uno Scrittore che pubblica romanzi a puntate su Substack: scandaglia tanto i tristi volti dell’oggi quanto il dentro e fuori dei propri personaggi; e trasforma in modo inatteso i non più impliciti lettori. Perciò ancora come sempre ti ringrazio.
Colpisce che in questo "gioco serio", definito esperimento, si possano leggere anche il tempo e il luogo di scrittura. Un privilegio nuovo, che aggiunge una dimensione coinvolgente al testo. L'autore si è ritagliato un varco nella rete e il petardo che esplode ogni settimana, con i suoi filamenti nel blu, è arrivato tardivo, ma con una luce tutta particolare, in una cascata di riflessi. Nel varco c'è una traccia diaristica manoscritta, da confrontare con la stesura successiva (non definitiva). Una frase di scrittore su un giornale di questi giorni e una frase anonima d'amore a lettere rosse su un muro scalcinato sono boe di salvataggio per l'ispirazione. L'irruzione del presente nella sfera del porno digitale rimane implicita, ma si staglia per confronto sullo sfondo del contesto culturale sessuofobico, infarcito di ipoteche ideologiche, comandamenti e ostracismi del tardo Novecento, ancora analogico, ma con propaggini dure a morire, nel "branco dei goliardi" pseudo-virili "castigatori" delle donne. La parte da romanzo-saggio verso il finale evoca i disastri dell'educazione, la solitudine tragica dell'incomunicabilità, di cui questa storia racconta in modo convincente gli effetti sulle persone giovani. Oltre l'aggancio alla trama, nel punto esatto con cui si era conclusa la puntata precedente, viene chiamato in causa il lettore, con le sue dichiarate aspettative sui "doveri" dello scrittore, "tenuto a scavare e ad andare a fondo" nella psicologia , nostra (per capire l'estraneo che ci portiamo dentro) e altrui (per capire l'imprevedibile delle "uscite e azioni" degli altri). La "stipatissima mansarda" della testa di un essere umano, la sua confusione, però, non si arrende e scopre una chiave in parole sorprendenti, che invitano a badare alle apparenze esterne, invece che alla "dannata macchina" interna del corpo, ostaggio del tempo. Quindi l'autore, che si trova in una spiaggia sarda, decide di sottrarsi al cliché del palombaro nel mare scuro dell'inconscio e di rimanere invece sulla superficie dell'acqua. Il contrasto tra "il perimetro della cameretta" e il fuori è risolto con l'apparente "imperturbabilità, indifferenza" del Solitario, rimproverato perché non soppesa bene il suo atteggiamento e sceglie il non detto nel dialogo con Lei. Lei, che non vuole fermarsi alle apparenze, è delusa dall'inerzia di lui, dal suo "nascondersi e scappare". Comincia così un'indagine degli indizi per costruire un identikit. "Freddo, ma delicato, composto, ordinato, non alza la voce, essenziale sul banco con i suoi quaderni e penne, libri foderati, non parla di sesso", nella sua percezione. "Innocuo", nella testimonianza dell'amica del cuore e nel verdetto ingeneroso del super-etero Muscoloso. Lei ricorda lo sconcerto del Solitario nel sentirla usare una frase volgare, non riuscendo a capire che a turbarlo non è l'espressione in sé, ma la prova visibile di una vita sessuale, non riuscendo a immaginare "le folate eccitanti, schifose" provate da lui. Soprattutto non riesce a decidere "se la cosa le dispiace", "cioè se le dispiace che a lui piacciano i ragazzi". Ha bisogno di tempo, come il suo autore, per ragionare, mentre il lettore sa degli effetti prorompenti della Lucy nel film di Bertolucci. Efficacissimo il sillogismo aumentato con cui Lei si arrovella nel mettere ordine ai suoi dubbi. A chiusura, "Il guru del maschio vincente" Frank T. J. Mackey (Tom Cruise) nel film "Magnolia", influencer ante litteram, inventore del programma televisivo "Seduci e distruggi", è osannato dal pubblico. Come sempre, il finale trova un'immagine sintetica che fa da elemento catalizzatore tra lo spessore temporale della storia, il modello culturale offerto dal cinema dell'epoca, il legame neanche tanto sotterraneo con il presente.