IV.4 "Magnolia"
Lettera da bruciare
Le puntate precedenti si leggono qui
(segue)
“Io... io... sono confuso” scriverà un lettore del romanzo a puntate intitolato 1999.
“Ho riletto e sono ancora più confuso. Mi stonava qualcosa di profondo, e al di là delle apparenze, così tanto facilmente fraintese, la psiche mi è subito pesata come un macigno che tirasse tutti giù, in un altro contesto narrativo... All’improvviso la relazione tra il solitario e lei, la nostra mitica Lei, è regredita a una semplice conoscenza che invece, con la scena del romanzo di Roth e con quella del tema in classe, immaginavo già oltre il tabù, la prigione, la vergogna del sesso... Possibile che io stia confondendo i piani dei momenti, l’ordine cronologico degli istanti indimenticabili e indimenticati, che l’autore vuole o vorrebbe misurare con il metro della psiche adulta e non con quella adolescente, quasi tutta interamente istintiva... in quei giorni in cui ogni giorno era mettere in discussione una vita tutta da scoprire e da vivere da grandi e non più bambini...”
Confesserà il lettore la sua delusione – la delusione di scoprirla così indietro, così incerta, come se tutto ciò che c’era stato prima (“Le piaceva parlarci, le piaceva ascoltarlo”) non fosse mai successo.
“Il solitario” scriverà il lettore “è andato via senza rispondere, senza difendersi, forse a cercare di capire se veramente lei per lui è solo un’amica... Be’ più che le apparenze sono le incertezze che mi mandano in confusione... Ma sento l’attesa della prima volta, la delusione della prima volta – che sta per saltare fuori come un uragano. Mi sbaglio?”
Nessuno sbaglia niente qui, nessuno può sbagliare oppure sbagliamo tutti, caro il mio lettore, penserà il solitario.
Sbagliamo tutti e non sbaglia nessuno, questo è il bello di un romanzo.
Ogni azione, ogni gesto dovrebbe risultare confuso e incerto anche quando sembra netto, perché per l’appunto possiamo essere istintivi ma raramente lucidi, se non a posteriori, se non in ritardo. Quando già è ora di misurare – o di risolvere – le conseguenze delle nostre azioni. Ma mi piace molto, penserà quindi il solitario, sentire che nella percezione del lettore i tempi arrivano opachi, ingarbugliati, pasticciati come in un sogno che sai di sognare, o come nell’esistenza da svegli. Un giorno non è mai solo quel giorno. È un racconto fatto a noi stessi, un ricordo corretto, adulterato, uno sfumare di tempi l’uno nell’altro. È mercoledì e allo stesso tempo è venerdì, come adesso, è strano che sia già venerdì, che sia già il 2025, un anno che – da laggiù – nemmeno avrei saputo pronunciare, pensare, credere di raggiungere. Dove stava il 2025? Eccolo! Ma la verità è che non è solo il 2025, è anche il 1999. Abitiamo tempi sfasati, ci muoviamo in bilico fra memorie storte e presagi, dejà vu e profezie che si avverano.
Il solitario tornò – lo scrivo al passato remoto, un tempo che non uso quasi mai, forse perché suona troppo netto, chiuso, sicuro, ha l’eleganza e la sicumera del compiuto, perfetto in senso etimologico, conchiuso... – il solitario tornò a casa macerato, e confuso e deluso come il lettore del 2025.
Eppure ci conosciamo, pensò.
Cos’era quella faccia che facevi, quella faccia come se non mi vedessi più, o meglio come se mi vedessi senza riconoscermi. Che cosa mi consegni a fare le cazzate che dice l’artista senza aggiungere il tuo punto di vista. Senza liquidarle con un sorriso, scrollando le spalle. Cos’era quella serietà, quel tono quasi acido?
Chiamala e chiediglielo.
Cos’era quella faccia da stronza.
E perché avrei voglia comunque di scopare con te? E bisogna qui dire che l’ha anche sognato, lo ha sognato sì, caro lettore, e dici bene, l’attesa e la delusione, perché vedi, c’erano – in sogno! o nel sogno che gli pare di avere fatto; se lo riguarda nella mente come in moviola, rimanda indietro come fa con le videocassette – loro due in una cameretta neutra, né la sua né quella di lei, che non sa comunque come fatta, una cameretta neutra di una casa al mare, lei ha fame, dice: mangiamo? Lui dice sì, apre il frigorifero, ma non c’è niente – e sappi, lettore, che mi sto sforzando a scrivere di un sogno, perché l’ho detto fin dall’inizio che non amo scrivere di sogni, non amo leggere di sogni, faccio un’eccezione. Nel frigo non c’è niente, è spettrale. Sul tavolo c’è dell’uva, allora lui gliela indica, c’è dell’uva, lei sorride e stacca un acino, e quello, nel sogno nel sonno nella veglia in cui rivede o crede di rivedere il sogno, a lui pare un gesto di un erotismo quasi insopportabile; e insomma va avanti così, che si ritrovano nudi e lui non sa che fare – perché quello che verrebbe istintivo non è detto che sia facile. E finisce che sì, d’accordo, lui la bacia, la tocca, si mette per un po’ con il mento sui suoi seni – “Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra...”
Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
dalla notte esteriore superstite luce
nella selva selvaggia che a te conduce
dalla padella alla brace
Ecco, la cosa va avanti per un po’ come si immagina, come è facile immaginare ma è tuttavia meno facile vivere, soprattutto se si è all’inizio; e se, come deve constatare amaramente il solitario, nulla di ciò che dovrebbe muoversi si muove, un incubo... niente, tutto tace, è l’ansia scusami, l’ansia, crede di avere detto nel sogno; e dev’essere letteralmente così l’impotenza – vuoi una cosa che non puoi, la volontà contraddetta dalla realtà.
Anche se per fortuna era un sogno, e adesso c’è semmai da prendere una bella decisione a proposito non di camere da letto ma di aule di scuola in cui toccherà continuare a convivere con l’artista e con lei: e allora all’uno o all’altra bisognerà pur fare un qualche tipo di discorso, che dici lettore? O a brutto muso prendere da parte l’artista e –
Ma figuriamoci. Il solitario evita i conflitti, li aggira. Sguscia via al primo segnale di fumo della battaglia che potrebbe esplodere. Ora non dite che è un vile, non pensarlo lettore, è solo che gli pare uno spreco di energia immenso stare lì a darsi sulla voce, a mostrare i muscoli, ne abbiamo già parlato, non fa per lui. Cioè, per essere onesti in quel pomeriggio di delusione e confusione cerca un foglio bianco A4 dalla stampante di casa, non lo trova, strappa da un quadernone a righe le quattro facciate centrali, e giacché di una sua capacità riesce ancora, riesce comunque a fidarsi – scrivere – imposta una letterina che recapiterà a tempo debito all’artista, gliela lascerà cadere sui piedi, o la ficcherà nel libro di chimica, nel diario, da qualche parte.
Caro *, scrive con grafia minuta e ancora ben leggibile, ti scrivo perché penso che scriverti mi permetta di dirti con calma alcune cose.
Si ferma. Il minuto di esitazione è interminabile, una montagna da scalare.
Sono rimasto un po’ – turbato
Mah. No, no. Magari gli parlo. Cancella. Straccia il foglio. Ne stacca via un altro, con rabbia, dal quadernone.
Lettera da bruciare, scrive in cima. La data.
Cara *
Virgola, a capo.
Penso che sia inutile starti a dire quanti ripensamenti ci siano dietro a questa lettera. Non pensavo che sarei arrivato al punto di scriverla, sebbene in testa l’avessi da qualche tempo. È difficile trovare le parole per esprimere comprensibilmente una sorta di cataclisma che è arrivato e ha scosso quella specie di muro ghiacciato che circonda il mio io. Siamo stati uno di fronte all’altra oggi, non ho detto niente e avrei avuto molto da dirti. Se la questione non ti riguardasse, sarebbe più facile, perché te ne parlerei sinceramente e tu mi consiglieresti. Ma si dà il caso che la persona al centro del problema sia la stessa unica interlocutrice a cui spiegare il problema. Bell’imbarazzo! Bel pasticcio! Comunque aspetta, devo dirti che mi sento già un po’ meglio, scrivere mi fa bene, anche se continua a preoccuparmi il dopo... Comunque, ho avuto l’impressione all’improvviso di essere per te un estraneo. Un tizio da buongiorno e buonasera. Mi accorgo che la nostra amicizia, se così posso chiamarla, è nata lentamente, poi abbiamo condiviso giornate di scuola, viaggi anche, film – ne abbiamo visti tanti insieme... e io ci facevo caso poco, non stavo lì a pensarci, fino a un certo punto, fino a quando ho cominciato a chiedermi costantemente ma lei dov’è adesso, lei che cosa sta pensando adesso. Ho cominciato a capire che qualcosa stava cambiando. Avevi una maglietta blu a righe bianche, ti ho guardato ed eri bellissima e avrei voluto dirtelo. E mi sono chiesto: ma questa è amicizia? È solo amicizia? Con grande difficoltà mi devi credere ti dico questo. E non so cosa cambierà tra noi dopo che avrai letto questa lettera. Non so nemmeno se è opportuno tutto questo, ma so che ho bisogno della tua amicizia e forse non più solo della tua amicizia, perché credo, scusa se dico credo ma credo credo credo di essermi innamorato di te.
(continua)




Suggestivo l'incrocio di intenzioni e di interpretazioni offerto da questa puntata, che ha come linfa ispiratrice la Beatrice di carne del poeta Giovanni Giudici e "L'educazione sentimentale" di Flaubert, con la sotterranea dialettica attesa/delusione . Nella trama si insinua un esempio di ricezione del lettore, uno tra i tanti, e la reazione dell'autore. Il lettore comunica la delusione riguardo alle sue aspettative e formula un'ipotesi di come potrebbe continuare il romanzo. L'ha disturbato che sia sconvolto l'ordine cronologico degli istanti, anche se definiti indimenticabili e indimenticati, e che la psiche adulta voglia raccontare la psiche istintiva adolescenziale, con una vita davanti tutta da scoprire e la fretta di diventare grandi. Perché l'autore fa entrare in gioco il lettore? Perché rispondere all'obiezione del lettore gli serve a chiarire la sua poetica. Alla base c'è un tempo sfasato, "in bilico fra memorie storte e presagi, dejà vu e profezie che si avverano", il 2025 che contiene anche il 1999. L'autore-solitario è contento che al lettore arrivi la percezione di "tempi opachi, ingarbugliati, pasticciati, come in un sogno che sai di sognare, uno sfumare di tempi l'uno nell'altro". "Nel sogno che gli pare di aver fatto" e che l'autore si sforza di raccontare, c'è l'istintivo desiderio, la mancata realizzazione, il sollievo di segnare il confine con la realtà. Da sveglio, c'è il bisogno di chiarire i rapporti con lei e con l'artista. Si fida della capacità di scrivere. Nel 1999 era ancora il tempo delle lettere, anche se in casa c'era già la carta in A4 della stampante. Decide di scrivere a tutti e due. La prima lettera, all'artista, è una lettera da bruciare, da stracciare. La seconda parla a lei, ma senza di lei. Parte con la consapevolezza che l'interlocutrice amichevole di sempre è la stessa persona che gli dà l'impressione di essere giudicato un estraneo. Il "cataclisma che ha scosso il muro ghiacciato" è ben raccontato negli indizi di "qualcosa che stava cambiando", di un legame che non era più solo di amicizia, che finalmente trovava il coraggio, il calore, le parole per dirlo. In quel presente di allora, visto da qui, si aprono reazioni diverse dopo la lettura della lettera, di una Lei diventata lettrice. Tutte possibili, nessuna sbagliata.
“Fermati, attimo!”: te lo chiedo io che leggo. Fermati sulla Lei con quella «maglietta blu a righe bianche». Oggi, il solitario ragazzo, lo adoro, perché ha fermato il presente. Mi fa paura pensare che «un giorno non è mai solo quel giorno»: lo so che è così - sono le regole del gioco - ma non mi piace, perché troppo alterati sono i racconti e i ricordi rispetto al presente vissuto. Quanto meglio invece starci nel presente, scriverla quella lettera, arrampicarsi nonostante l’equilibrio precario. Scriverla significa dire che il presente c’è e lo si vive, senza preoccuparsi di come saranno le narrazioni future. Vivere quella sala di cinema con l’odore di popcorn, quella copertina imbarazzante mostrata in libreria, quel maglioncino viola e per l’appunto la maglietta blu a righe bianche. Tutto questo è reale (nella finzione!). Bellissima anche questa puntata, perché se già nelle precedenti lo scrittore è entrato in dialogo col lettore, stavolta il “cielo di carta” della parete fra noi e lui si è definitivamente strappato: siamo fuori dal romanzo e siamo nel romanzo, divenuti in qualche modo anche noi personaggi. Personaggi però letti, ascoltati, compresi e accompagnati dallo scrittore. «Sbagliamo tutti e non sbaglia nessuno, questo è il bello del romanzo». Personaggi e persone, con le stesse incertezze e inquietudini del protagonista. Lui è più giovane di noi, ha solo sedici anni. Ma a volte i giovani hanno tanto da insegnare. Prendono una penna e scrivono una lettera d’amore con un “credo credo credo” che non toglie nulla al sentimento, anzi lo amplifica. E ora vorrei solo che fosse già la settimana prossima per vedere quale sarà la reazione di lei. Imito però il solitario e vivo il presente, conservando fra me e me le troppe domande su realtà e finzione e ringraziando come sempre lo scrittore per questa nuova puntata donata.