La vergogna del mondo
Una puntata diversa
Quando mi sono imbarcato nel progetto di questo romanzo a puntate, ho subito chiarito a me stesso e ai potenziali lettori e lettrici l’intenzione di espormi alle “interferenze” del presente. Quello che accade e che mi accade infiltra le pagine per vie imprevedibili e spesso sotterranee. È anche questo il bello. Ho deciso perciò che il racconto vero e proprio riprenderà venerdì prossimo con una puntata doppia – sapremo che cosa c’è scritto nel tema di lei e che cosa ha colto, del film “Matrix”, il muscoloso; verrà fuori l’ombra di George Steiner e la scia di un’eterna dialettica fra apocalittici e integrati.
Il solitario – lo anticipo – avrà lo slancio di portare all’insegnante un suo articolo sulla guerra in Kosovo, uscito su un giornaletto locale con cui ha cominciato a collaborare. È un articolo che ho scritto io a sedici anni, glielo presterò anche se oggi lo trovo illeggibile. Non posso correggerlo, non devo. Lo trovo indigesto perché l’enfasi lirica mi aveva preso la mano, ma era il mio modo di reagire alle pagine dei quotidiani di quei giorni. Le ho conservate via via, sono ancora qui.
Parlano della inesauribile “vergogna del mondo”.
Come l’articolo che ho scritto per “L’Espresso” oggi in edicola. Ho deciso di condividerne con questo mezzo qualche brano. Perché non riesco a respingere l’interferenza del presente, e non voglio. Perché mi interessa che sia letto. Perché qualche volta è bene che il romanzo, un romanzo, anche un romanzo a puntate come questo, lasci spazio integrale alla realtà dei fatti.
Le parole che lo scrittore israeliano David Grossman ha affidato, sempre stamattina, a Francesca Caferri su “la Repubblica” sono riassunte da un titolo che già basta per coglierne tutta la forza e la necessità: «È genocidio. Mi si spezza il cuore, ma adesso devo dirlo». «Qualche volta – dice Grossman – si riescono a capire le cose solo parlandone».
Per capire, come da adolescente solitario facevo già in quel 1999, mi sono affidato alle parole.
Ho ripreso in mano un libro, l’ho riletto. Il pensiero di riattraversarlo mi girava in testa da settimane. Il libro è “I sommersi e i salvati” di Primo Levi (1986).
Appuntamento a venerdì 8 agosto con la puntata doppia di “1999” e, per chi vorrà, a domani sabato 2 agosto alle 19 per una mezzora di diretta Instagram sul profilo paolodipaolof.
[…] Da quando l’ho scoperto, seguendo le lezioni universitarie di una poetessa, Biancamaria Frabotta, alla Sapienza – uscivamo che era buio da quel corso sui libri testimoniali del secondo Novecento, con la testa in movimento, accesi, pieni di domande – da quando ho scoperto I sommersi e i salvati, credo che sia in assoluto il libro più importante del secolo scorso. L’aggettivo è blando, me ne rendo conto, fin troppo generico, ma in questo ultimo e disperato testo di Primo Levi – pubblicato nel 1986, pochi mesi prima del suicidio – c’è una posta in gioco sconvolgente, che riesce quasi a superare, proiettandola su un orizzonte più ampio, l’esperienza del Lager. Levi la riaffronta in modo diverso, ultimo e ultimativo: con una cupezza che rabbuia la incredibile leggerezza di tono guadagnata perfino nelle pagine di La tregua, o in quel piccolo capolavoro di ingegneria o chimica narrativa che è Il sistema periodico. C’è poca, pochissima speranza nelle pagine – sospese tra memoria, saggio, pamphlet – di I sommersi e i salvati. Levi sente montare l’onda dei negazionismi e avverte con prostrazione il rischio che, nel cristallizzarsi, nel ripetersi, la testimonianza dei sopravvissuti alla Shoah perda forza ed efficacia. Ma va oltre, arriva nei pressi dell’indicibile, quando formula una frase perentoria e abissale come questa: «Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni». Si spinge ad affermare che si è trattato, si tratta di un discorso fatto «per conto di terzi»: «I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega».
Ricordo l’impressione che mi fecero queste pagine alla prima lettura, con la loro nettezza, il tono aspro. Mi sembrò che toccasse una verità terribile e indigesta, che riguarda e comprende ogni catastrofe collettiva generata dalla violenza, «atti umani» – come dice il titolo del bellissimo romanzo di Han Kang, ultimo premio Nobel per la letteratura – che generano sopraffazione, distruzione, morte. Levi fa risaltare l’oggettiva impossibilità di interrogare i caduti, di conoscere la loro versione, di riscattare quel dolore che resterà senza parole. […]
Levi esplora coraggiosamente il senso di vergogna della sopravvivenza, la colpa di chi è rimasto vivo al posto di qualcun altro. E sulla accidentalità, casualità, sulle vie talvolta ambigue, quando non feroci, feroci e disperate, che – in uno spazio di abiezione e violenza estrema – portano qualcuno a resistere e a non soccombere scrive pagine laceranti. Un testamento autocritico al punto da essere quasi annichilente. Ma c’è un passaggio ulteriore: lì dove Levi dice che c’è «un’altra vergogna più vasta». «La vergogna del mondo».
Prima di trascrivere queste righe, mi avventuro a dire che vanno lette – credo perfino nelle intenzioni di Levi – facendo lo sforzo di estrarle dalla contingenza a cui più direttamente si riferiscono, di astrarle al punto da coglierne l’universalità.
Qui I sommersi e i salvati diventa il grande e disperato libro sull’offesa all’umano in ogni epoca e a ogni latitudine. Qui I sommersi e i salvati supera i confini della storia e della geografia, polverizza energicamente i distinguo lessicali, i raffronti capziosi e ipocriti, le petizioni ideologiche di varia natura. Qui I sommersi e i salvati diventa il libro che racconta anche la tragedia di Gaza.
«C’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato», scrive Levi. Si riferisce alla maggioranza dei tedeschi nei dodici anni di Hitler, «nell’illusione che il non volere fosse un non sapere». Ma si riferisce a qualunque circostanza in cui «il mare di dolore, passato e presente» ci circonda e ci dimostra che «l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore…
E che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare».
Appena oltre, lo scrittore si interroga angosciosamente sulla possibilità di un’altra Auschwitz, sull’ipotesi di «altri stermini di massa, unilaterali, sistematici, meccanicizzati, voluti a livello di governo, perpetrati su popolazioni innocenti ed inermi, e legittimati dalla dottrina del disprezzo». […]
Gaza è quello che è, quello che vediamo, che continuiamo a vedere. L’alibi del non vedere/non sapere, su cui si poteva appunto giocare la partita delle autoassoluzioni collettive rispetto alle tragedie novecentesche e perfino post-novecentesche, non regge per nessuno. Anche dove una illustre rivista italiana di geopolitica dovesse parlare (lo ha fatto) di “danni collaterali”, sono per l’appunto parole. Se il senso di impotenza è frustrante (tuttavia: nel febbraio del 2003 circa 100 milioni di persone in tutto il mondo scesero in piazza contro l’intervento in Iraq); se il senso di impotenza è frustrante, questo fissarsi ancora sulle parole, sulle soluzioni lessicali, sulle definizioni, sui paragoni possibili o impossibili è addirittura indecente.
Le parole “piene” e disperate di Levi sono prive di ogni retorica: quando parla di denutrizione, di fame, dice che sono rapidamente distruttive e «prima di distruggere paralizzano»: «Tanto più quando sono precedute da anni di segregazione, umiliazione, maltrattamenti, migrazioni forzate, lacerazione dei legami famigliari, rottura dei contatti col resto del mondo». Non nasconde che, nell’inferno estenuante della fame, vige il “prima vengo io”, ferino, non solidale. Indica le circostanze in cui il corpo umano diventa oggetto, «una cosa di nessuno», di cui si può disporre in modo arbitrario. Invita a fare, a occhi chiusi, l’esperimento concettuale di immaginare di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, «tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e dall’umiliazione; e di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i propri cari».
Infine si ribella con orrore all’idea che, in qualunque contesto, «un solo innocente debba essere punito per una colpa non commessa».
Qui leggo qualche brano da “I sommersi e i salvati” di Primo Levi





Non credo di potere né di volere dire nient'altro che grazie. Davvero grazie.
Esporsi alle "interferenze del presente" per l'autore non è deludere le aspettative delle lettrici e dei lettori, né disattendere ai propri propositi iniziali. L'evasione dalla gabbia delle puntate del venerdì è solo apparente. Forse l'autore vuole soltanto conferma di una sua profonda convinzione, "che il romanzo lasci spazio integrale alla realtà dei fatti", ma che per farlo abbia bisogno di una trama di riflessioni, personali e mediate dai maestri, impensabili senza le parole. Sempre più esplicita l'identificazione dell'autore con il solitario, sedicenne inventore dell'intervento sul Kosovo su un giornaletto locale, pieno di giovanile lirismo come reazione alle notizie di quei giorni. Fa parte dello statuto dello scrittore "per capire, affidarsi alle parole", rileggere un libro scritto decenni fa per illuminare la situazione storica di oggi. C'è nel parlare a chi legge oggi del libro "I sommersi e i salvati" di Primo Levi tutta la forza della propria formazione, le scelte esemplari della poetessa docente alla Sapienza, la rilettura adulta di quarantunenne con la sensibilità critica che si rivela importante strumento pedagogico, con davanti come classe una piattaforma vasta e variegata. Ciò che conta è radiografare e astrarre tra le righe il messaggio di Levi, proporlo come universale, ancora attualissimo, provare a "testimoniare per delega", a "riscattare quel dolore dei caduti che resterà senza parole". Così nella libertà di attraversare più piani temporali, che caratterizza il romanzo 1999, viene facile passare da Auschwitz al Kosovo a Gaza e pensare che "la partita delle autoassoluzioni collettive rispetto alle tragedie novecentesche e post novecentesche" non è finita. Servono ancora le parole per cercare di scalfire il senso frustrante di impotenza. Le parole piene e disperate, prive di retorica, di Levi e di chi continua a scrivere il suo romanzo, chiedendo a lettrici e lettori di considerare quanto uno scrittore non possa far a meno di misurarsi sulla "vergogna del mondo" del nostro presente, come quel sedicenne cominciava a intuire.