V.1 "Eyes Wide Shut"
La realtà fa una concorrenza sleale alla letteratura
(Siamo all’ultimo miglio. La fiamma si è quasi consumata, la scintilla sulla copertina - lo vedete - si è già spenta. Domani arriverà una puntata speciale con gli audio mancanti delle puntate precedenti, una playlist a tema, un video di aggiornamento sul cantiere e sul dialogo con chi sta leggendo. Il 4 ottobre a Carpi, come annunciato, leggerò l’ultimo capitolo in pubblico alla Festa del racconto. Sto immaginando un incontro da remoto su piattaforma aperto a chiunque vorrà confrontarsi su questo esperimento. E a un altro incontro dal vivo. Mancheranno anche a me questi personaggi!)
Le puntate precedenti si leggono qui
(segue) Mi pare difficile – scriverà una lettrice – che un sedicenne dica, anzi scriva una frase come la seguente: “Una sorta di cataclisma che è arrivato e ha scosso quella specie di muro ghiacciato che circonda il mio io”. Troppo giovane. Forse – scriverà la lettrice – cercherebbe di nasconderlo, forse userebbe altre parole.
Cara lettrice e amica, sarebbe bellissimo, bellissimo e confortante poterti dare ragione, nel futuro che è diventato questo presente.
Sarebbe bellissimo e confortante mettersi a ragionare intorno a quel sentore che, leggendo, si può avere – e non solo legittimamente: spesso opportunamente! – di inautentico.
E sì, è nei dialoghi, soprattutto nei dialoghi (è un’arte difficile, nelle scuole di scrittura si batte sempre molto sui dialoghi), si rischia di suonare falsi. “La gente non parla così!” dirà al solitario diventato scrittore un critico accigliato a proposito di un romanzo in cui i personaggi usano un lessico e perfino una sintassi tutt’altro che medi. Hai voglia a ribattere che è un gioco consapevole, che non è detto si debba essere mimetici; e a ogni modo, sa qual è il punto? Mi capita di parlare come i miei personaggi, di alzare il tono e la posta, con slancio espressivo e ironico, dove c’è disponibilità a capire, a intendersi, a fare come Settembrini e Naphta nella Montagna incantata di Thomas Mann, ha presente? Quei due, ha presente? Parlano, parlano, parlano, si lambiccano i cervelli, si danno sulla voce, si eccitano in quella furia dialettica, godono delle loro stesse speciose considerazioni...
Ma lasciamo perdere. Torno a te, cara lettrice e amica, e ribadisco che sarebbe bellissimo e confortante darti ragione. Confermarti che, riponendo eccessiva fiducia nei suoi mezzi, l’autore ha perso di vista la plausibilità, la congruenza tra i pensieri/le parole di un sedicenne reale e quelle del suo personaggio comunque fittizio, il simulacro di un adolescente in carne e ossa. Oppure ancora, cara lettrice e amica, sarebbe perfino più facile cavarsela rivendicando con stizza l’arbitrio, il dominio sulla realtà parallela, l’indiscutibile tirannica gestione della pagina da parte dell’Autore? Quod scripsi, scripsi.
E invece il punto è un altro. È che la realtà, come al solitario dirà in un pomeriggio del 2019, un pomeriggio di primavera a Trieste uno scrittore triestino, in una mansardina da cui si vede il mare – ecco gli dirà questo, in una nuvola di fumo di sigaro: la realtà fa una concorrenza sleale alla letteratura.
La realtà fa una concorrenza sleale alla letteratura.
Nel nostro caso, la frase sopra riprodotta – “Una sorta di cataclisma che è arrivato e ha scosso quella specie di muro ghiacciato che circonda il mio io” – è testimoniata dalle fonti, da documenti autografi, risalenti per l’appunto all’ultimo ultimissimo segmento di Ventesimo secolo. E c’è di più: il turbamento.
Va chiarito che il solitario, nella sua natura sfuggente, tende e tenderà a essere omissivo. Anche nei libri che scriverà: a sfumare, camuffare, rimodellare il vissuto, prestandolo ai personaggi in versioni comunque adulterate.
Di tanto in tanto, una frase, detta o scritta, si impone nella sua esattezza; a quel punto, la si ruba. La si trapianta nel romanzo per come era. Anche dove risultasse inattendibile. Lo si fa per fedeltà al vissuto.
La lettera scritta a lei – quella lettera – è stata conservata. E quella frase suona strana e terribile anche a chi l’ha formulata. Somiglia a una sentenza e in insieme a un presagio. Parla di muro ghiacciato uno che, oltre due decenni dopo, scriverà un romanzo intorno a un lago del centro Europa nel cuore della piccola era glaciale.
E scriverà questo dialogo:
«Che volevi dire con quell’immagine?
Le parole congelate
Non lo so.
Ci penso da giorni
A cosa?
A quella frase di Rabelais
Sì, ma al di là di Rabelais
Boh
Mi pare poco
Non è facile con un messaggio
La chiamo.
“Non è facile con un messaggio,” ripeto. Mi trema la voce. “Ma da quanto non ci sentivamo al telefono?”
“Non me lo ricordo.”
“Nemmeno io. Comunque... ”
“Comunque?”
“Comunque la citazione continua... ”
“Mauro, avevo detto al di là di Rabelais.”
“Ma è bella. Dice che una volta scongelate, finalmente, le parole si riescono a sentire. E si riconoscono.” “Vuoi dire che le tue erano ghiacciate?”
“Voglio dire... ”
“Vuoi dire sì.”
“Sì. Ma a un certo punto si ghiacciano le parole di tutti.”
“Se l’aria è molto fredda.”
“Se non si cerca più il posto del disgelo.”
“Non l’abbiamo più cercato. E non so dirti perché.”
“Nemmeno io, Anna.”
“Forse cambia poco, ormai.”
“Sì, cambia poco. Però non tutto si congela.” “No?”
“O quantomeno, si sa: il ghiaccio conserva.”
“Hai messo la nostra vita nel freezer.”»
Questo, cara lettrice e amica, per dire che non serve scivolare nell’irrazionalità né uscire dalla logica per riconoscere che l’esistenza umana si snoda fra anticipazioni, presagi misteriosi, indizi che si chiariscono a lungo termine; ripete e si ripete, lascia maturare una sua inaggirabile e, sulle prime, acerba matrice. Ci lascia diventare ciò che siamo.
Il presunto muro ghiacciato che circonda l’io del solitario è davvero lì, troneggia sulla pagina scritta a mano; insieme a una serie di altre frasi che, lettrice amica, ho omesso e mi hanno quasi atterrito.
Non per il lessico sostenuto, con punte auliche, come si sarebbe detto negli anni di scuola: in fondo, so bene che il personaggio in questione – l’essere umano dietro al personaggio – si è nutrito di libri oltremisura, ha letto troppo presto ciò che avrebbe forse dovuto rimandare a età più consapevoli e attrezzate, ha compulsato quotidiani fin dagli anni della scuola media, ha creduto nel suo dominio delle parole prima che nel suo dominio sul cosiddetto reale, si è fidato di lemmi, locuzioni; ha investito, più che sull’esperienza diretta, sulle strategie sintattiche che la traducono e la rendono dicibile.
Perciò, quando si tratta di scrivere una lettera sostanzialmente d’amore, si scherma dietro la sua fronda di vocaboli, di incisi. E sappi che ho tagliato parecchio, ho asciugato, ho riassunto: perché, a trascriverla per filo e per segno, avrebbe riempito un intero capitolo di questa storia (si tratta di sette – sette! – facciate fittissime di foglio protocollo, righe piene da capo a capo, senza saltare una riga).
Ma soprattutto avrebbe dovuto fare i conti più a fondo con la natura dell’adolescente che è stato; e che sì, ricorda bene, ma non benissimo, o non integralmente. Non ricordava, per dire, la frase sull’io ghiacciato. E come avrebbe potuto? Non ricordava le ansiose affannose circonlocuzioni – detto più chiaro: giri di parole – attraverso cui affronta la materia, la sostanza del suo discorso. Il suo essere, il suo essersi innamorato. Dimostra dunque, come sanno solo gli scrittori più esperti e consapevoli, che le parole possono allontanarci dalle cose più di quanto ci avvicinano. Che si può scrivere senza dire. Che, e consentimi di tornare al grande scrittore triestino nella mansarda di Trieste affacciata sul mare, c’è in ogni scrittura una necessaria distanza, qualche volta un distacco, una misura di sicurezza che ci fa perdere
«l’immediatezza, il lasciarsi andare al fluire di sensazioni, sentimenti, pensieri. C’è una necessaria freddezza, una distanza che la scrittura deve istituire nei confronti del suo oggetto, anche o forse anzi soprattutto se e quando si tratta di un oggetto o di una persona particolarmente importante o amata, perché senza questa distanza, inevitabilmente “fredda”, non è possibile nessuna vera scrittura, ci sarebbero solo abbandoni sentimentali, importanti e fondamentali per chi li pensa o li dice o li scrive ma solo per lui e incapaci di trasmettere e mediare ciò che gli sta a cuore e che, per essere espresso e trasmesso, deve essere in qualche modo dominato, distanziato. Questo è sempre doloroso, perché si vorrebbe sempre vivere, pensare, sentire, e dunque anche esprimere, scrivere abbandonandosi, come quando ci si abbandona all’abbraccio del mare o a quello di una persona amata ma anche del cane che si tiene in braccio o fra le gambe»
Mi dirai che, nel caso del solitario, sta scrivendo una lettera a una ragazza di cui è innamorato, e quindi dovrebbe venirgli naturale essere più libero, meno riflessivo, più spontaneo. Scrivere, per l’appunto, abbandonandosi. Ma non è capace, o peggio: non vuole esserne capace. Pretende di controllare, di governare i tempi dell’espressione, di dominare e distanziare. Perché? Questo è difficile dirlo. Per difendersi? Per restarsene nel fortino, protetto dal muro di ghiaccio? Di sicuro non ha nessuna propensione e non l’avrà mai ad accettare per quello che è – torno allo scrittore triestino che a sua volta cita Thomas Mann, riecco Thomas Mann –
il calore di mucca del sentimento
Cara la mia lettrice e amica, è il calore di mucca del sentimento che il solitario combatte in quelle sue paginette compìte.
Farebbe prima a dire ciò che ha da dire, in due parole, ne bastano due, e invece – giuro – le scrive: Ho sempre pensato di essere forte a tal punto da dominare razionalmente ogni passione... Io, le scrive – credimi – io vorrei non pensare a te mattina e sera, vorrei, ma non ci riesco: e mi fa tenerezza, mi fa una disperata tenerezza questo ragazzino sulle sue, spaventato, comico spaventato guerriero, teso a non soccombere di fronte alla sua stessa debolezza, concentrato a dirle, nei fatti, mi sto innamorando di te, mi sono innamorato di te, ma senza dirglielo chiaramente, dicendole invece provo piacere a starti accanto, mi manchi se non ci sei, cerca tutte le perifrasi per suggerirle che l’amicizia non è più solo amicizia, ma lo annota come restando in punta di piedi, come se dovesse fare marcia indietro alla prima avvisaglia di un sentimento contrario, o indisposto ad accogliere il suo.
È una lettera piena di forse. È una lettera piena di credo. È una lettera piena di scusami se.
A un certo punto campeggia perfino una domanda assurda, assurda perché è rivolta a lei, come se lei potesse dare una risposta, come se si potesse chiedere a colui o colei di cui ci siamo innamorati di spiegarci perché e come e cosa; e la domanda è questa: ma come fare?
Sta dicendo a lei: mi sono innamorato di te, come fare? Che devo fare?
Povero stupido atterrito sedicenne. Non so se sarebbe più da prenderti a schiaffi o da abbracciarti, se riempirti di calci nel culo o accarezzarti – dio, le carezze, sono una cosa così strana le carezze, non è vero? Le carezze una volta finita l’infanzia.
Perdona la lunga digressione cara amica e scusami, adesso c’è da correre, il tempo stringe, e c’è da arrivare alla fine di questa storia in fretta.
Siamo al punto in cui il solitario sta per consegnarle la lettera.
Siamo al punto in cui, prima di farlo, ne parla con il muscoloso.
Siamo al punto in cui il muscoloso gli dirà, in uno slancio generoso e che può apparire greve: vi lascio casa. “Vi lascio casa, così... parlate”. E ride.
Lo farà.
Siamo al punto in cui l’artista, be’, il punto in cui l’artista sta per avere una crisi di nervi. Una romanzesca bellissima crisi di nervi, sublime nella sua scompostezza, quasi luminosa nella sua sincerità. Perché ha fatto un passo non da poco, intanto, ha fatto un gesto che sembra un gesto da niente – un invito, una sera a cena da lui, un film – e invece è un tentativo di ricucitura. Non lo sa bene nemmeno lui, ma questo è.
Ha invitato lei. Ha invitato il solitario. Ha invitato perfino il muscoloso. Ha invitato un’altra amica.
Ha detto solenne: “Mangiamo giapponese e vediamo un film, e il film lo scelgo io”. È riuscito a procurarsi una cassetta pirata – lo annuncia con gli occhi che brillano – dell’ultimo film di Stanley Kubrick. “Voi tanto non l’avete visto, no?” si assicura, acidulo. “Io, quando ho saputo che era morto, ho pianto per un’ora”. (continua)





Che puntata! Sono rimasta senza fiato. Intanto la raffinatezza di quell’immagine che ci ha accompagnato settimana dopo settimana, quel fuoco che è andato consumandosi poco a poco, inavvertitamente, ingannevolmente quasi, per via di quelle scintille che si prendevano tutta la scena distraendoci dal bastoncino che andava via via annerendosi. E che adesso se ne sta lì, nudo e bruciacchiato, sipario che calando fa il buio, restituendoci a noi stessi, alle nostre vite più o meno ordinarie. E il senso di vuoto e smarrimento e tristezza è un po’ quello. E adesso? Ma c’è ancora un po’ di tempo, in realtà. Già domani ci aspetta un regalo grande (grazie!) e poi altre tre puntate. Spalanchiamoli bene gli occhi nella semioscurità di questo ultimo miglio. Non lasciamoci ingannare o fuorviare dalle apparenze e dalle maschere. Ma soprattutto cerchiamo di capire come riusciranno i nostri personaggi a uscire dal groviglio di maschere e apparenze in cui si sono avviluppati.
Ancora una volta lo Scrittore si rivolge a una lettrice in prima persona. E lo fa per parlare di ciò che è o non è autentico o meglio di ciò che suona o non suona autentico. Può un ragazzino di 16 anni esprimersi con frasi come “Una sorta di cataclisma che è arrivato e ha scosso quella specie di muro ghiacciato che circonda il mio io”? Personalmente non ho avuto il minimo dubbio che fosse una frase autentica, ma non nel senso che poi ci ha mostrato lo Scrittore, nel senso di un’autenticità attestata da prove autografe (ancora una volta la bella grafia tondeggiante e armoniosa del Solitario), ma nel senso di autentica per quello specifico ragazzino di 16 anni, il Solitario, appunto, che non poteva che esprimere sé stesso attraverso quelle parole lì. E allora mi chiedo, Che autenticità cerchiamo, da lettrici e lettori, quando leggiamo un romanzo? Quando leggiamo uno scambio di battute tra personaggi? Dipende dal romanzo, dipende dai personaggi e dipende da chi l’ha scritto. A noi spetta di sospendere la nostra incredulità e di accogliere ciascuno nell’autenticità che l’autrice o l’autore gli ha consegnato. L’idea che l’autenticità sia soltanto mimesi (ben sapendo che trattandosi di mimesi si tratterà comunque di qualcosa di diverso dal reale, di un’imitazione appunto) mi fa pensare a un futuro in cui alle macchine si chiederà solo quello, dialoghi che funzionino secondo la nostra idea di quello che può funzionare. Dialoghi tutti uguali e assolutamente prevedibili. Un’idea agghiacciante. “La realtà fa una concorrenza sleale alla letteratura”. Ecco, appunto. La realtà spariglia le carte. Lo dice Magris, lo diceva già Pirandello. Che privilegio, poi, quello squarcio sulla bottega dello Scrittore. Cosa entra e come entra nella sua scrittura. E il presagio e quel dialogo che è uno dei più emozionanti di tutto il libro. Le parole congelate, la voce che trema, il ghiaccio che conserva, una vita messa nel freezer. “Il muro ghiacciato che circonda il mio io”. Davvero, davvero profetico. “[…] l’esistenza umana si snoda fra anticipazioni, presagi misteriosi, indizi che si chiariscono a lungo termine; ripete e si ripete, lascia maturare una sua inaggirabile e, sulle prime, acerba matrice.”
“C’è una necessaria freddezza, una distanza che la scrittura deve istituire nei confronti del suo oggetto, anche o forse anzi soprattutto se e quando si tratta di un oggetto o di una persona particolarmente importante o amata, perché senza questa distanza, inevitabilmente “fredda”, non è possibile nessuna vera scrittura.”
Il Solitario conosce già questa lezione anche se quello che sta scrivendo richiederebbe forse “il calore di mucca del sentimento”. E, invece, no, invece i credo, i forse e le domande accorate: “che devo fare?” “come devo fare?” Io ci trovo una grandissima tenerezza in queste domande. E l’istinto è quello di abbracciarlo e riempirlo di carezze. Perché a 16 anni cosa ne sappiamo dell’amore? Di cosa fare e di come farlo? E forse tutte le volte che ci innamoriamo ritorniamo sedicenni smarriti. Pieni di dubbi, di domande e di confusione. E di paure.
Il tempo-spazio della scrittura "invecchia in fretta", è agli sgoccioli. Anche la scintilla sulla copertina si è spenta. Ma il cantiere si illumina di progetti e risponde alla fretta con una formidabile lentezza, attraverso una lunga digressione, abitata da una staffetta che si snoda tra l'Autore, Claudio Magris, Thomas Mann. Il bello di questa puntata è quindi un meta-romanzo che si rivolge a una Lettrice (come non pensare alla Ludmilla di Calvino?), per rispondere alla sua obiezione, in un dialogo a distanza e per ragionare su un aspetto importante della propria poetica. Magnifica opportunità entrare nell'edificio della scrittura. L'Autore è come se scrivesse una lettera alla Lettrice amica, svelando che la lettera introdotta nel romanzo non è così lontana da quella scritta dal Solitario sedicenne, anche se molto prosciugata rispetto alle sette pagine dell'originale. Quelle parole all'interlocutrice sembrano (oh le apparenze!) inautentiche, suonano false perché troppo forbite, poco plausibili per un adolescente, "speciose considerazioni". Ma la difesa è abile, non rivendica con stizza la gestione esclusiva delle pagine da parte dell'Autore. Si basa su prove inconfutabili e su un ipse dixit illustre, lo scrittore triestino che stigmatizza, dalla sua grande esperienza di vita e di scrittura, la legge sottesa: "La realtà fa una concorrenza sleale alla letteratura". La testimonianza autografa delle fonti della frase incriminata (il cataclisma che ha scosso il muro ghiacciato che circonda l'io) elimina ogni dubbio. C'è posto anche per una riflessione sullo scrivere autobiografico dell'Autore, che tende a "omettere, sfumare, camuffare, rimodellare " e a rischiare l'accusa di inattendibilità , se la scelta di citare con esattezza una frase, detta o scritta, si impone "per fedeltà al vissuto". La lettera a Lei esiste nella realtà, è non solo presente nella forma cartacea, ma ha agito negli anni, ha lavorato come presagio nella memoria, come "indizio a lungo termine" e troverà altra vita in un dialogo determinante nel "Romanzo senza umani", nelle "parole congelate" di Rabelais, che si sono conservate fino al momento del disgelo. Molto amabile e autoironico il ritratto dell'autore da cucciolo, all'origine della lingua "aulica", nutrita da una lettura precoce di "libri oltremisura", nell'investimento sulle strategie sintattiche più che sull'esperienza diretta. Così, la sostanza dell'essersi innamorato trova "una necessaria distanza, una necessaria freddezza", che è controllo del "calore di mucca del sentimento" (Thomas Mann). L'Autore si concede una disperata tenerezza per questo ragazzino "comico spaventato guerriero", come direbbe Benni, che preferisce annotare "in punta di piedi" il suo amore, ma senza dirlo a Lei chiaramente. Un "povero stupido atterrito sedicenne" che non sa come affrontare "le carezze una volta finita l'infanzia". Questo esemplare gioco di scatole cinesi ha un cuore finale nell'ultima pagina, che riannoda i fili con i quattro personaggi, con lo slancio generoso del Muscoloso, il tentativo di ricucitura dell'Artista e la cassetta pirata dell'ultimo film di Stanley Kubrick da vedere insieme.