V.2 "Eyes Wide Shut"
Nell'attesa
Stavolta metto prima l’audio, forse è una puntata che va ascoltata, prima di leggerla.
Le puntate precedenti si leggono qui
(segue) E adesso, finalmente, l’ha consegnata.
La lettera. La famosa lettera. La faticosa lettera. La lettera da bruciare non bruciata.
Il solitario ha piegato il foglio a righe in quattro, ha pensato di ficcarlo in una busta, ci ha ripensato. E alla fine di una giornata di scuola che perciò non potrà essere considerata qualunque, la cerca nella piccola calca dei corridoi, la raggiunge e – come nel migliore e più prevedibile film adolescenziale che sia stato e possa essere scritto – le lascia in pegno quelle scartoffie, senza aggiungere granché. Bofonchiando un “Leggila, è per te”.
A lei sembra già di per sé molto bello, e gratificante, questo gesto: tanto più compiuto da chi di gesti ne fa pochi. Detto altrimenti, ricevere una lettera da qualcuno – quando capitava più spesso che gli umani comunicassero, si confidassero e confessassero segreti e stati d’animo per via di carta e inchiostro – ecco, ricevere una lettera da qualcuno è, che arrivasse per posta o consegnata a mano, un evento che non può lasciare indifferenti. Com’è che dice quel verso di Emily Dickinson? Una lettera è una gioia della Terra.
Insomma lei è contenta, gratificata, non sa cosa pensare, ma forse qualcosa si aspetta. Qualcosa che sia –
Qualcosa che faccia la differenza.
E capisce, e sente, anche se non se ne accorge, anche se non ci fa caso, ma capisce e sente che siamo al mondo solo per questo, grossomodo per questo: perché qualcuno si rivolga esclusivamente a noi. Ci parli, ci prenda a cuore, ci sollevi, ci curi: un giorno, un pomeriggio, un’ora. Siamo qui per ricevere una lettera. Non per sentirci trattare con generica accortezza, con modi gentili – il che non dispiace, sia chiaro; non per essere in un mucchio, fra i tanti: per essere destinatari, di tanto in tanto unici, di un’attenzione specifica, concentrata, integrale. Così lei ama, ama, può dire ama, non lui, non il solitario, come pure ci piacerebbe pensare, no, intanto questo: ama il suo gesto. Ama la dedizione, i minuti, uno per uno, che ha speso a scrivere unicamente per lei.
Ama, e amiamo tutti, quei doni che non sono formali o distratti. Talvolta impalpabili, ci commuovono perché ci leggiamo dentro un tempo offerto senza ricatti, sperperato come si sperperano le vere ricchezze, per amore, per scialo, sì, ma non per caso.
Ora, qui, l’autore del romanzo dovrebbe essere in grado di descrivere con pienezza l’intensità dei sentimenti dei suoi personaggi, è il suo mestiere. Dovrebbe far palpitare sulla pagina le parole come il cuore di lei, che ha i polpastrelli umidicci e teme che il sudore faccia sbiadire qualche parola, o gonfiare la carta. Perché per qualche ora quei fogli piegati che stringe, e poi mette al sicuro nello zaino, delibando il piacere dell’attesa, il tempo che la separa dall’istante in cui comincerà a leggere, quei fogli piegati le sembrano una delle cose più preziose che abbia mai ricevuto e posseduto. Pranzerà in fretta, si chiuderà in camera sua e a gambe incrociate, sul letto, soppeserà a lungo quel Cara *
Virgola, a capo.
“Penso che sia inutile starti a dire quanti ripensamenti ci siano dietro a questa lettera. Non pensavo che sarei arrivato al punto di scriverla, sebbene in testa l’avessi da qualche tempo. È difficile trovare le parole” –
Ecco, le parole.
Le parole avvolgono. Le parole scaldano. La fanno avvampare.
È una dichiarazione d’amore.
Quante volte, in una vita, ci capita di offrirne o di riceverne? Non molte. La gran parte si concentra in quel giro di anni irrequieti e incerti e vitali che chiamiamo giovinezza, in specie la prima, il primo tempo – quando una storia che dura un paio di mesi, o un’estate, sembra lunga cinque sei volte tanto, sembra un appuntamento col destino.
È-una-dichiarazione-d’amore.
Imprudente, ridicola, maestosa pur nella sua incertezza.
Il solitario, a pochi chilometri da lei, sprofonda in un’attesa di segno diverso. Carica di ansia, elettrica e nervosa. Non riesce a concentrarsi. Prende un libro, lo chiude. Lo sguardo resta fisso su una stessa riga fino a cancellarla, a non vederla più. Si alza, modifica la posizione di un oggetto. Apre il diario scolastico, guarda l’elenco dei compiti. Non riesce a concentrarsi. Va in bagno, fa pipì. Torna di là, pensa che potrebbe mettere un po’ di musica.
C’è una pagina di Flaubert che ancora non conosce.
La scoprirà fra qualche anno. Un tizio poco più grande di lui, un ventenne innamorato, attende l’arrivo della donna che, senza volerlo, l’ha sedotto. È il 1848, siamo a Parigi. Lei non arriva, è in ritardo. Lui comincia a passeggiare nervosamente lungo un marciapiede. Avanti e indietro. Gioca con una moneta. Immagina quali potrebbero essere gli impedimenti. Manda un messo a casa di lei, per capire se è almeno uscita. Sa che le strade sono bloccate dalle proteste. Forse il problema è questo. Scruta le facciate delle case e gli appaiono come volti incattiviti, o irridenti. Lo scrittore francese è un mago nel dilatare il tempo narrativo, sa tenderlo come un elastico. Un’ora è un’eternità, se un orizzonte d’attesa ti bracca, ti imprigiona. Fanno male i minuti che non passano. Ma fanno anche bene, generano una ricchezza che nel ricordo sprigiona la sua luce, uno scintillio dorato; e Flaubert, nelle ultime pagine di quel romanzo all’epoca incompreso, L’educazione sentimentale, spiega perché. Mostra il tizio innamorato e un suo amico nell’atto di rievocare imprese della loro adolescenza, gli anni di scuola, i professori, una boccata di fumo. E quel giorno che, come usava per le prime prove erotiche dei maschi, si trovarono all’ingresso di un bordello, con tanto di ridicolo mazzo di fiori. Sarà stata l’ansia, l’imbarazzo, quell’improvvisa abbondanza di donne davanti, fatto è che uno dei due, il protagonista, si sente svenire e se ne scappa. L’altro è costretto a seguirlo, perché i soldi li ha l’amico. Commentando l’amara e patetica vicenda, uno fa all’altro: è stato il meglio che abbiamo avuto!
Sì, conferma l’amico, è stato il meglio che abbiamo avuto!
Così Flaubert indica il cuore di ogni educazione sentimentale. Attendere, desiderare.
Ciò che attendiamo genera desiderio. Ciò che desideriamo vive nell’attesa. Quello che infine riusciamo a raggiungere non vale comunque gli spasmi, gli slanci, le illusioni, la corrente elettrica dell’immaginazione.
Il solitario aspetta. Il solitario deve aspettare. È in gabbia, e soffre. È in gabbia, e gode. È in gabbia ed è libero di figurarsi una scena nel film del futuro. È in gabbia, ed è libero di pensare che tra poco, tra dieci minuti, tra mezzora squillerà il telefono e lei dirà quel che è giusto che dica. Sbuffa, si tormenta. Ma può vedere – se lo inventa, lo proietta come un pezzo di cinema sull’armadio della cameretta – il pomeriggio in cui usciranno insieme e non più soltanto da amici. La porterà al lago. Anzi no, in un posto di Roma che può piacerle. Anzi no, il muscoloso, sapendo della lettera, ha promesso che ci lascia casa per un po’. Accadrà lì. Sta già accadendo. Le si accosta. Vorrebbe soffiarle sul collo. Leccarle il collo. Sente il profumo. Le sfiora i capelli, poi fa come per pettinarli con le dita. Che miracolo può essere fare questo. Prima di baciarsi. Nell’attesa di baciarsi. Nell’attesa dell’attesa di baciarsi. Nell’attesa dell’attesa di baciarsi – senza sapere nemmeno bene come si fa, le labbra si sovrappongono, asciutte, serrate, poi si schiudono piano, e la lingua, organo della cavità orale dei vertebrati, la lingua si affaccia e si muove e pulsa, il bacio diventa affamato, vorace, l’impressione è che baciarsi nell’attesa di toccarsi, nell’attesa di spogliarsi, di fare tutto il resto, ecco baciarsi nell’attesa sia così furioso, così prepotente e furioso che sembra molto di più che baciarsi, quel movimento impazzito, quella concentrazione e quella fame, il corpo intero sembra tendersi e concentrarsi in quella mucosa mobilissima, pronto a penetrare o a essere inghiottito. Nell’attesa dell’attesa di baciarsi il solitario fa le prove con il cuscino, con il dorso della mano, con le dita. Muscoloso per favore non rientrare, lasciaci ancora un po’, bisogna esplorare con la lingua tutta la superficie del corpo di lei, mi servono ore, mi serve la tua casa libera per giorni, per mesi, per anni – come sembra durare quest’attesa, un fiume di tempo, prima che squilli il telefono di casa, prima della voce della madre che dice “È per te”, e prima che lui un po’ si ricomponga, e raggiunga la cornetta e dica “Pronto”.
E lei, all’altro capo, lo stesso.
E lui: come stai?
E lei: che domanda è?
E lui: hai letto?
E lei: secondo te?
E lui: e?
E lei: era tanto tempo –
E lui: tanto tempo cosa?
E lei: tanto tempo che volevo sentirmi dire tutto questo da te.
(continua)




Una puntata esemplare, emozionante, lucida, coesa. Più che di "ricezione", parola troppo tecnica, qui si tratta di "ricevere", non solo una lettera, ma tutto quello che accade prima e dopo. Un altro colore del caleidoscopio del Tempo, che attraversa tutto il romanzo, coinvolgendo personaggi, autore, lettori e lettrici. Colore che qui trova una perfetta adesione alla trama, in questa storia quasi alla fine, scritta attorno a una lettera cartacea, offerta sullo schermo digitale, anzi "ricevuta" sussurrata dall'autore in ore notturne, con un gesto intimo, che mima l'esclusività commovente del tempo donato, dedicato ad altri, gratuito, messaggio sotterraneo della prima pagina (e forse di tutto l'esperimento). Il Solitario, dopo tanti ripensamenti, ha compiuto quel gesto, rivolto solo a Lei, ha saputo dichiarare l'amore che prova da tempo, con parole che la scaldano, la fanno arrossire, ancor prima di leggerle le pervadono il corpo, fino ai "polpastrelli umidicci" e le regalano "il piacere dell'attesa". Come scrive il Solitario, campione di una giovinezza alla prima esperienza della sua educazione sentimentale? In modo "imprudente, ridicolo, maestoso". Nella triade di aggettivi c'è già tutta la gamma di sentimenti impacciati ma intensi. E come è la "sua" attesa? "Carica di ansia, elettrica e nervosa". Per spiegarla meglio, l'autore si rivolge al mago Flaubert, maestro nel dilatare il tempo, nel raccontare un personaggio nel suo "orizzonte d'attesa", nel desiderio, vissuti come le esperienze migliori di una vita, al di là delle realizzazioni. Così sperimenta il Solitario: soffre e gode nell'immaginare il "film" che forse accadrà, lo proietta sull'armadio della cameretta e l'immaginazione lo guida a riflettere con tutto il corpo su "l'attesa dell'attesa di baciarsi". Un magistrale, dettagliato reportage di questa avventura, prima ancora che sia avvenuta, prelude all'arrivo della telefonata di Lei. Una telefonata che inizia con l'ammissione di un'attesa che dura da tanto tempo.
Oso dire che questa puntata sia dedicata all'attesa, quasi esclusivamente ad un attesa che inizia dall'emozione di aprire la famosa lettera, finalmente consegnata e non bruciata alla Lei , da parte del solitario. La decisione nella consegna rende il tutto terribilmente unico e seguito da un'atmosfera che fa sentire speciali e non soggetti alle solite distratte attenzioni, anche usuali, se vogliamo, quasi incredibili nella consapevolezza di essere i soli destinatari. L'attesa continua nelle mani di Lei, che ha paura persino di macchiarla, cancellando le parole, con le mani umidicce, per l'ansia di leggerla e di conservarla integra...è talmente preziosa, leggo il suo pensiero. Entusiasmante il paragone con " L'educazione sentimentale" di Flaubert, indovinata con l'aspettativa di un lui che attende arrivi la donna con il quale ha appuntamento e ritarda. Eccoci di fronte ad un'altra attesa , descritta in modo superbo, rivolta ai minuti che non passano mai, a quei minuti che sembrano ore, che creano ansia e dubbi sull'arrivo a un appuntamento importante. Ritroviamo l'attesa del solitario che aspetta la telefonata della Lei, e conta i minuti necessari per leggere una lettera. Ancora un'attesa, quella del lettore , per la prossima puntata. Abile lo scrittore nel sottolineare e creare queste pause, l'anima sospira e sogna... mentre attende